venerdì 4 febbraio 2011

Ulteriori osservazioni sull'autorità proposte da Riccardo Fanciullacci

Caro dottor Focchi,
la ringrazio per queste risposte così chiare alle mie domande, che sono solo alcune delle tante che il suo blog così interessante mi suscita ogni volta.
Oltre che per ringraziare, vorrei usare questo commento per ricambiare con due piccole osservazioni.

La prima riguarda alcuni stilemi che ricorrono sia negli ultimi scritti/trascrizioni di Lacan, sia soprattutto negli scritti recenti dei membri della vostra Scuola. Faccio tre esempi ricavandoli dalle sue risposte: “una via d’accesso a un po’ di godimento”, “non sempre questa funzione cade in buone mani”, “casi favorevoli”. Altre forme che ricavo da altri testi: “soluzione non anonima”, “più degno di rispetto” (formula che Lacan usa per descrivere sia l’amore di un uomo per una donna particolarizzata, sia l’assunzione della paternità dopo il tramonto del ruolo forte del padre).
Io amo molto questi stilemi. Qualcuno potrebbe rubricarli come formule vaghe, ma io preferisco associarle ad una poetica del dettaglio infinitesimo, così piccolo che non c’è una nuova categoria per afferrarlo, ma occorre aggiungere queste formule. Esse sono come degli operatori che servono a far de-consistere le categorie su cui operano. Miller, qualche anno fa, ha tenuto a Parigi un corso sull’esprit de finesse (io non ero a Parigi, ma mi hanno raccontato): ecco siamo da quelle parti. Siamo dalle parti di un sapere, quello analitico, che sempre più nettamente vuol significare di avere a che fare e di voler avere a che fare con ciò che Aristotele dice che sfugge al sapere, cioè il singolare. A chi dice: “sono formule vaghe” vorrei dire: “no, sono formule che ti segnalano di non fare della teoria un qualcosa di autoreferenziale, perfettamente coerente e integrato perché formale e vuoto”. Non so se questa mia lettura è per lei accettabile.
Vorrei aggiungere che stilemi come questi si trovano talvolta anche presso altri pensatori: penso ad esempio alla locuzione di Winnicott sulla madre minimamente decente. Quando sono gli altri ad usarle si ha sempre il timore che per quelle aperture non ben circoscritte possa poi passare di tutto (ad esempio: una morale normativa, la fissazione di modelli comportamentali stretti), ma questo pericolo non va combattuto attaccando in generale le formule vaghe.

La seconda riguarda le annotazioni finali sull’autorità.
È una questione davvero decisiva oggi. Bisogna ripensarla proprio anche per contrastare i tentativi di rimettere in piedi vecchie autorità, bisogna ripensarla affinché la critica di questi tentativi non riproduca l’ingenuità di quelle critiche che oppongono in maniera unilaterale libertà e autorità.
Lacan, se non sbaglio, lo faceva notare agli studenti del Maggio. Ma su questo punto un lavoro di straordinario interesse e ricchezza lo ha fatto il pensiero della differenza sessuale, in particolare quello italiano. Mi permetto così di segnalare, tra gli altri, tre testi: uno è il quarto volume prodotto dalla comunità filosofica femminile di Diotima (Verona): “Oltre l’uguaglianza. Le radici femminile dell’autorità”; un altro è il libro di Lia Cigarini “La politica del desiderio”, che ha una sezione sull’autorità e infine alcuni testi di Luisa Muraro. Ne citerò uno di cui ho appena curato una nuova edizione ampliata (la prima era introvabile già quando è uscita): “Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti” (Orthotes, Napoli). Poiché l’ho curato, l’indicazione è interessata? Sì, ma anche no perché l’ho curato appunto in ragione dell’interesse che secondo me il libro ha.
Nella trascrizione della terza delle Tre lezioni, trovo una frase simile a quella che è nella sua ultima risposta: «Ordine simbolico e ordine sociale non sono la stessa cosa. Se, per esempio, teorizzo la necessità di autorità, non posso in alcun modo dedurne la necessità di cattedre o di voti o di altri simili dispositivi con cui, a livello di ordine sociale, si impone un’autorità. Cattedre, voti, giudizi e cose simili, come sentenze, tribunali ecc., sono forse difendibili contestualmente. Ma non è che l’aver dimostrato la necessità che vi sia autorità perché vi sia ordine simbolico equivalga all’affermazione della bontà di come di fatto, storicamente, socialmente, un’autorità si esercita. È chiaro questo? Ebbene, ordine simbolico e ordine sociale, peraltro, non sono neppure separati. Nel momento in cui teorizzo la necessità simbolica di autorità, infatti, io pongo un’istanza anche per l’ordine sociale: bisogna che ci sia autorità perché vi sia ordine sociale, innegabilmente. Ma quali forme, quali modi di questa autorità siano da costituirsi…».
Concordo con l’impostazione che emerge dalle righe di Muraro che ho citato e anche con l’aggiunta che le segue e cioè che non solo vi possono essere diversi “portatori di autorità”, ma anche diverse forme di autorità. In una battuta: se c’è stato un tempo in cui il padre e il poliziotto erano entrambi portatori di una stessa forma di autorità, oggi l’autorità che un padre o un insegnante può sperare di realizzare e cercare di realizzare è di tipo diverso, molto meno legata alla possibilità di usare, come più o meno estrema ratio, anche la forza pur di venire a capo di una situazione. È un’autorità senza potere, ma non senza potenza (nel senso spinoziano): è un’autorità che non limita, ma capacita, “offre una via”, “mostra una soluzione”.
Ecco, nel provare a dire qualcosa a proposito di quest’altra forma di autorità, che è quella a cui lei associa la dignitas, lo scambio tra la Scuola lacaniana e il pensiero della differenza è senz’altro un’occasione importante.
Ma sullo stesso tema incrociamo anche una parte della teologia cristiana, ad esempio alcuni studi sul cristianesimo primitivo che esaminano che ruolo avesse la codificazione nella costituzione dell’autorità che operava nelle prime comunità. (Per intenderci: la formalizzazione, molto recente, ottocentesca, dell’infallibilità del Papa, che ha prodotto all’immagine del Cattolicesimo più danni che altro, è legata ad una crisi dell’autorità come dignitas, crisi a cui si è tentato di far fronte con una regola procedurale!).
Nel deserto attuale della riflessione politica, queste tre linee di lavoro, quella della vostra Scuola, quella del pensiero femminile italiano della differenza e quella di una parte della teologia cattolica mi paiono all’avanguardia per pensare qualcosa che invece – e lo dico con dispiacere – è stato davvero poco pensato nella tradizione marxista e anche operaista.

Spero che potremo tornare presto su questo problema. Credo che la vostra Scuola abbia da dire in proposito, e non solo a partire dalla “autorità” possibile per un padre postmoderno, ma anche a partire dalla “autorità” dell’analista – e da quella di Lacan per voi, che ho intravisto leggendo le “Lettere all’opinione illuminata” e che mi ha molto, molto colpito: è assolutamente inusuale in uno scenario come quello postmoderno in cui non c’è riferimento ad un nome o a una teoria che non sia presentato come sostituibile.

6 commenti:

  1. Penso ai risvolti che ha nella clinica quanto scrive Fanciullacci a proposito della poetica del dettaglio infinitesimo. Penso a “un padre che chiede solo quello che sa anche dare” e alla “madre minimamente decente” in relazione ai tanti casi in cui la sofferenza che viene portata in analisi dipende proprio da un’idealizzazione nevrotizzante, da un’idealizzazione normata, come la chiama Focchi. Mi risulta immediato pensare che sono proprio le categorie che si rifanno all’universale, tralasciando invece il singolare e il dettaglio, a favorire una pretesa spinta a coincidere con l’ideale eliminando la componente pulsionale, proprio quella che rende conto dell’esistenza di un soggetto. Miller in “Delucidazioni su Lacan” scrive che è il godimento a scegliere il soggetto(p.184).
    Allora è proprio attraverso la clinica che l’efficacia della psicanalisi va considerata non come percorso di reintegrazione ideale o mitica se il soggetto in quanto barrato introduce l’indeterminazione, la discontinuità rispetto s se stesso. Ed è forse per questo che uno degli effetti spesso delle prime sedute di analisi è proprio la leggerezza nell’accogliere un dire che non viene necessariamente rinchiuso nelle maglie dell’interpretabile e del senso. Penso a un’ analizzante che a un certo punto abbandona il proposito iniziale di “trattare” un sintomo “psicosomatico” (già sottoposto in precedenza ma inutilmente a trattamento medico) perché si accorge che, per la prima volta a quasi cinquant’anni, riesce a parlare della propria storia infantile ritrovandone dei risvolti inediti, inaspettati, che le danno leggerezza nel parlare (non sembra un caso che nei momenti di "crisi" del sintomo sia impedita nel camminare da un corpo che si rende estremamente pesante). Per lei è un’occasione che vanifica o rende “inutile” la somatizzazione. E’ forse questa la consegna di cui parla Focchi nel capitolo finale di “La mancanza e l’eccesso”? In questo consiste “ il consegnarsi alla divisione soggettiva”? Con la poetica del dettaglio c’è forse la sottolineatura del soggettivo, del particolare, dell’elemento che si propone al trattamento ma che nel contempo si sottrae come resto o sfumatura di un’operazione che non potrà mai comprenderlo tutto.

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  2. In effetti la poetica del dettaglio suggerisce una via che è l'opposto di quella della padronanza. Il paziente, in genere, viene cercando di riprendere il controllo di una situazione che gli è sfuggita di mano. Anche l'isterico, in fondo, che si espone nella divisione soggettiva, cerca di controllare il desiderio dell'Altro, di porsi come padrona del padrone attraverso il gioco di seduzione che esercita sul suo desiderio. La sfumatura, il particolare infinitesimo, la traccia impercettibile sono invece elementi che non potremmo riassumere in quel che Lacan sigla con S1. Per questo un'esperienza d'analisi è anche, come suggeriva Miller in un suo seminario, un effort de poesie

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  3. • In fondo la stessa associazione libera mette in questione l’intenzione del paziente di riprendere il controllo della situazione, controllo già messo in scacco da ciò che viene presentato come sintomo. L’associazione libera quindi mette in questione la padronanza puntando a far emergere significanti inattesi, significanti “intrusi”, quindi significanti non S1. Tuttavia invece di “riappropriarsi” del significante intruso per cercare di farne un significante di una propria verità, adoperandosi per rimetterlo in catena affinché rappresenti il soggetto, si tratta per Lacan del seminario “Ancora” di lasciarlo fuori senso, fuori catena nella sua relazione con il godimento , fuori presa (non riducendone quindi la svista) . Traccia impercettibile, come scrivi . Ed è sempre in “Ancora” che Lacan afferma “L’inconscio è che l’essere, parlando, goda” e evoca il “mistero del corpo parlante come mistero dell’inconscio”. L’esperienza d’analisi come “effort de poésie” non è forse il punto in cui si lascia la decifrazione per l’essere di godimento, il momento in cui si lascia la presa in funzione di un “essere presi “ per un’altra soddisfazione”? Il film “Il discorso del re” ha contribuito a evocare queste questioni, accanto e principalmente alla questione de “lalingua”.

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  4. Sul "discorso del re" ci sarebbe moltissimo da dire. In fondo il film mostra come la balbuzie non sia un problema di linguaggio (e tu ti riferisci a lalangue, credo, proprio perché questa indica la dimensione pulsionale della lingua) ma di voce.
    La voce è un potente mezzo di seduzione (Ulisse e le sirene) ma è anche fatta per zittire, per dare sulla voce, per sovrastare l'altro, per interromperlo (cfr. i dibattiti politici in televisione). Possiamo immaginarci la situazione di sopraffazione vocale di un dibattito televisivo – dove avviene tra due pari – trasposta nella relazione dissimmetrica adulto bambino, dove l'adulto dà sulla voce al bambino, lo zittisce, ma con la forza della sopraffazione vocale, non della persuasione. E il bambino, che vorrebbe rispondere sullo stesso tono, ma non può, perché, per esempio, vorrebbe zittire il padre che lo zittisce, ma al tempo stesso lo ama. Allora ha l'impulso a parlare, a emettere con forza la voce, e ha però anche il moto contrario, che inibisce questo impulso. La balbuzie è semplicemente questo: un fenomeno di voce. Bella la scena in cui Lionel, al momento del discorso all'entrata in guerra della Gran Bretagna, rassicura re Giorgio con la sua presenza, e il film lo rappresenta come dirigesse l'orchestra. Quasi dicesse: tu pensa a parlare, mi occupo io di S1. Credo che questa precisione si spieghi solo con il fatto che lo sceneggiatore è a a sua volta un balbuziente "guarito"!

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  5. Trovo di grande interesse quanto scrivi sul "discorso del re".
    C'è anche la scena in cui il futuro re Giorgio legge un brano ascoltando in cuffia la musica (e solo a posteriori, dopo qualche tempo, si accorge ascoltando la registrazione, di avere bene letto)...In questo caso
    1) non c'è inibizione della voce in quanto non "sente" la voce dell'Altro? Oppure...
    2) la musica evoca una sorta di sonorità più vicina all'aspetto pulsionale della lingua (quindi non connessa con S1) che avrebbe una funzione disinibitoria sulla voce del futuro re?

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  6. Sì, anche la scena in cui la voce di re Giorgio viene registrata mentre ascolta musica in cuffia è clinicamente significativa. Direi che è il pendant dell'ultima scena, quando la "direzione dell'orchestra" passa in mano a Lionel, e Giorgio è sollevato dal compito del controllo. Nella scena della cuffia Lionel separa l'emissione della voce (l'appagamento pulsionale della vocalità) dalla necessità di controllarla, perché l'udito che serve a controllarla è "distratto", è diversamente impegnato. Sono dunque separati i due tempi costitutivi del sintomo della balbuzie: l'impulso a emettere la voce e la coazione inibitoria a controllarla, a frenarla.

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