martedì 22 marzo 2011
Le Scuole di psicoanalisi, la scienza e la politica
Gabriella Ripa di Meana
Dialogo immaginario con Lacan
Nottetempo, Roma 2010
Un dialogo tra due personaggi, Lacan e un analista che rappresenta il punto di vista dell’autrice, mette a confronto una visione storica della psicoanalisi con i problemi che la psicoanalisi incontra oggi, in un’attualità in cui si sente stretta.
Le parole di Lacan, pur costruite in un montaggio, sono riprese in modo letterale da diversi testi. Le parole dell’analista suo interlocutore esprimono le preoccupazioni per una pratica che nella morsa delle ideologie contemporanee trova con difficoltà il proprio spazio.
Vorremmo credere infatti di vivere in un epoca postidelogica, ma l’autrice mette bene in risalto il peso dominante dello scientismo nel nostro mondo. Lo scientismo è l’ideologia dell’epoca in cui lo spazio pubblico non è più quello della politica ma quello burocratico delle amministrazioni, è l’ideologia che innalza il sapere e il metodo scientifico a fonti uniche di certezza e a metro di misura che obbliga alla conformità.
Scienza e scientismo naturalmente sono cose diverse, e se la prima è un metodo di analisi, di conoscenza e di intervento sulla realtà i cui risultati, nelle applicazioni della tecnologia, sono tangibili e incontestabili quando riferiti al mondo oggettivo, la seconda estende questo metodo in modo improprio, cercando di dominare con il calcolo anche i campi abitati della soggettività, soggiogando all’imperio del numero i fattori elusivi, imprevedibili, legati all’improvvisazione in cui il soggetto si manifesta. L’esempio maggiore sono le ricerche statistiche, con il loro schiacciamento uniformante, la cancellazione delle verità specifiche, e l’appiattimento conformista del comportamento.
Il libro si apre con il tema della crisi della psicoanalisi, che appartiene già a ieri, distinguendola dal momento attuale, in cui la psicoanalisi è considerata sotto attacco. Si tratta di un distinguo significativo. La crisi, di cui si parlava negli anni ’80, era infatti un problema di paradigma concettuale, di efficacia clinica, e rifletteva le difficoltà di un certo orientamento all’interno della galassia psicoanalitica che cercava di adeguare i propri concetti e i propri metodi a quelli della scienza, incontrando necessariamente dei punti d’arresto proprio sul piano della clinica. Ridurre l’interpretazione a una competenza, lo psicoanalista a uno specialista depositario di un sapere costituito, proiettato sul calcolo dell’interpretazione, spezzava la punta dell’imprevedibile, solo preservando il quale risulta possibile il trattamento di un soggetto che non sta alle leggi del numero. La crisi della psicoanalisi era quindi crisi di una corrente all’interno del variegato mondo psicoanalitico, ed era un problema clinico ed epistemologico.
L’attacco alla psicoanalisi è invece un problema politico, e direi che abbiamo oggi capito quanto la clinica psicoanalitica sia innervata nella politica, e ad essa debba rispondere più che alle domande mal formulate degli epistemologi positivisti, come Grünbaum.
Il problema attuale della psicoanalisi è politico perché la psicoanalisi tutela uno spazio che il regime puramente amministrativo dell’impolitica tende a far scomparire.
L’economia della felicità promossa attualmente dallo psicoeconomista Richard Layard in Gran Bretagna ne è solo l’esempio più evidente. Si tenta di arruolare un esercito di psicologi cognitivisti per garantire una lotta alla depressione su scala nazionale uniformando gli obiettivi da raggiungere ai criteri di una felicità benthamiana aggiornata da una misurabilità garantita da Kahneman.
Nella misura in cui le istituzioni governative si occupano di un benessere identificato con la felicità, l’inconscio diventa un problema politico che balza in prima linea.
Il “Dialogo immaginario con Lacan” è traversato da questi temi, che toccano da vicino ormai chiunque si occupi di cose “psi”, ed esprime una potente spinta antistituzionale, aprendo la sua critica a tutto campo, portandola però anche su un aspetto che andrebbe invece preservato, come le Scuole di psicoanalisi, considerate dall’autrice negative per il desiderio e incentrate sull’autorità.
Il problema è che l’autorità non è l’autoritarismo, e che le professioni impossibili elencate da Freud, insegnare, governare, psicoanalizzare, sono impossibili proprio perché non si fondano su un’operatività tecnica, e trovano la propria risorsa in una auctoritas, che è solo sinonimo di dignitas. Non c’è insegnamento senza il consenso di chi vuole imparare, malgrado le pretese tecniche d’apprendimento messe a punto nei laboratori di mimesi scientifica della psicologia, e chi vuole imparare dà il proprio consenso se rispetta chi insegna. Si capisce perché, in un sistema scolastico come l’attuale, fatto per umiliare gli insegnanti, l’istruzione sia a repentaglio. Che non ci sia una téchne politiké lo spiegava già Socrate, e la crisi della politica non viene da una perdita di potere, da una parcellizzazione taylorista e fordista dell’organizzazione politica, ma da un depotenziamento di quelle che Bagheot chiamava le dignified parts of the Constitution. La psicoanalisi ha il proprio motore non nella competenza, nell’abilità tecnica, nella perizia dello psicoanalista, ma in quel perno della traslazione che è il soggetto supposto sapere. Non cioè in un sapere da applicare ma in una funzione che, senza necessariamente coincidere con la persona dell’analista, ne autorizza la parola, dandogli un valore diverso da quello che ha nel dialogo quotidiano. Le Scuole di psicoanalisi non sono che l’organizzazione istituzionale, cioè proiettata nella durata, di questa funzione imprescindibile nella pratica psicoanalitica, e criticarla significa carezzare l’illusione di uno psicoanalista eroe solitario, sottratto allo spazio pubblico, chiuso nella eburnea turris di una solitudine immaginata come una vetta irraggiungibile, che è in realtà una resa senza condizioni all’ingranaggio che non importa ti dia l’illusione di non omologare te, se vince omologando tutti.
Marco Focchi
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