venerdì 25 marzo 2011

Il godimento illimitato e la contemporaneità



Dafne




Marisa Fiumanò
L'inconscio è il sociale. Desiderio e godimento nella contemporaneità
Bruno Mondadori, Milano 2010.



Il godimento, nell’ultimo insegnamento di Lacan, diventa un concetto centrale, che resiste ad essere riassorbito nel linguaggio, e a partire dal quale la prospettiva clinica elaborata negli anni Cinquanta si rovescia completamente. Nel seminario sull’Etica la domanda era: “Come può il soggetto, che è soggetto del significante, attingere a un godimento senza intersezioni con il significante?”, e la risposta, sulla scia di Bataille, veniva dalla promozione dell’idea di trasgressione. A partire dagli anni Settanta Lacan rovescia l’ordine di priorità: innanzi tutto c’è il godimento, e il quesito è: “Cosa fa sì che il soggetto esca dalla propria chiusura autoerotica, da un godimento qu’il ne faut pas, per rivolgersi all’Altro?”
L’autrice prende la fondamentale nozione di godimento, a partire dalla quale Lacan riorienta completamente la prospettiva clinica della psicoanalisi, per analizzare le nuove patologie contemporanee e i fenomeni sociali. La differenza che individua tra il tempo di Freud e il nostro è che se quella di Freud era un’epoca disciplinare, fondata sulla rimozione, nella nostra il timone sociale è puntato nella direzione di un godimento da ottenere a ogni costo, fino al punto in cui questo costo può risultare insostenibile per l’economia psichica.
La prospettiva è quella di un godimento senza limite, che si configura come una forma di dipendenza, una “tossicomania” delle emozioni forti che ci portano a cercare effetti sempre più spinti, come si vede per esempio nel cinema, ma anche in tutte le manifestazioni sociali, che prendono un’accelerazione difficilmente immaginabile. Per farsene un’idea si può pensare che gli annunciatori RAI degli anni Cinquanta parlavano a un ritmo decisamente più lento degli attuali, e agganciare l’attenzione nel flusso di sollecitazioni da cui siamo raggiunti richiede un tempismo a volte atletico. Sembra ridotta la tolleranza degli intervalli vuoti, la sopportabilità dei momenti di noia. L’autrice ne deduce una società che non condanna la dipendenza perché non è più in grado di privare e di vietare, di sottrarre godimento senza perdere consenso.
Dovremmo tuttavia domandarci se questa incapacità di imporre la privazione va insieme a un’accettazione della dipendenza o se piuttosto, accentuando l’individualismo che ha caratterizzato le società occidentali a partire dall’Illuminismo, non promuova una crescente chiusura in sé. In fondo uno dei timori maggiori che i pazienti esprimono nei confronti dell’esperienza psicoanalitica è spesso quello della dipendenza in una società che, per molti versi, esalta l’autonomia, quell’autonomia che Lacan avrebbe definito del “falso cogito”, quella del soggetto arroccato alla propria sicurezza d’essere.
Uno dei fattori maggiori nel gioco politico attuale sono infatti proprio i temi securitari, fatti apposta per insinuare lo stato d’eccezione nella routine della governamentalità. In fondo la tossicomania da godimento è un modo di rendersi indipendenti dall’Altro, o di difendersi dal suo desiderio, come mi mostravano con chiarezza una volta gli ospiti di una comunità per cocainomani, che disegnavano il proprio luogo, la propria casa, fornita di tutti gli accessori elettronici per “farsi” di musica e di immagini, senza nessuna strada che raggiungesse la casa, o dove la casa era dispersa in un labirinto che la rendeva inaccessibile.
Quel che in genere chiamiamo “dipendenza” si configura spesso come il riflesso dell’ideologizzazione dell’autonomia, che porta il soggetto a chiudersi nel proprio rifugio, con i propri oggetti di godimento, evitando il passaggio che porta all’interazione con l’Altro.
La chiave di lettura attraverso il godimento porta l’autrice a interrogare molti temi che hanno animato il dibattito sociale negli ultimi tempi. Riferisco un esempio per tutti, che mi sembra suggestivo.
Lacan, seguendo il capriccio di una sua riflessione, s’interroga se il godimento non sia ipotizzabile in tutto il mondo animale. Naturalmente non possiamo averne la prova, ma possiamo pensare che in fondo il godimento sia una proprietà comune del vivente, e che potrebbe non essere improprio attribuirlo anche alla pianta. E qui l’autrice fa sorgere l’immagine mitica di Dafne che per sfuggire alla prepotente seduzione di Apollo prega di essere trasformata in alloro e viene esaudita. Abbiamo quindi una donna mutata in una pianta sempreverde, che non muore mai, nutrita dalla linfa perenne di un godimento che traversa le specie. Ed è a questo punto che, in modo spiazzante, appare l’attualità nella figura di Eluana Englaro, la ragazza che viveva solo di vita vegetativa, la ragazza pianta, che vista nella luce di Dafne ci disorienta, perché sospende tutti i nostri interrogativi etici a un godimento di cui non sappiamo nulla.
Mille altri esempi porta l’autrice di come si possano suggestivamente applicare questi concetti ad argomenti che ci sono resi familiari dal martellamento dei media, e che appaiono in una prospettiva nuova e strana in questa rilettura.
Il libro è sostenuto dall’idea che non c’è differenza sostanziale tra i temi soggettivi e quelli sociali, e che la psicoanalisi non consiste affatto nel chiudersi nel luogo claustrale di una stanza dove analista e paziente s’immergono nell’intimo dell’intimo, perché l’inconscio si innerva direttamente sul sociale, su ciò di cui tutti discutono, anche se la chiave di lettura psicoanalitica ce ne mostra un risvolto radicalmente diverso.
Un’osservazione possiamo fare sul titolo: la continuità tra soggetto e società è leggibile in Lacan in molti modi, e in fondo la definizione stessa dell’inconscio come discorso dell’Altro mostra che il lavoro introspettivo dell’analisi fa apparire un’esteriorità da cui siamo traversati in tutti i modi. Questa linea di pensiero prolunga l’edipo freudiano nel sociale, facendo del sociale una specie di grande famiglia allargata. È il versante dove Lacan rivisita Freud formalizzandone i concetti, e sostanzialmente estendendoli.
Una prospettiva più radicale potremmo trovarla in un’altra definizione dell’inconscio che Lacan dà nella lezione del 10 maggio 1967 del seminario su La logica del fantasma, quando dice che “l’inconscio è la politica”. Cosa significa? Lacan esplora la natura linguistica dell’inconscio sempre più attraverso gli strumenti della logica, e che l’inconscio sia la politica afferma che ciò che unisce o divide gli uomini, risente del fendente la logica cala nel linguaggio. In questa definizione l’inconscio non è più lo spazio familiare che si allarga alla società, ma è lo spazio aperto del confronto tra gli uomini, dove essi si esprimono con l’azione e con le parole, dove si espongono al rischio e alla gloria, alla disfatta o al gesto memorabile, misurandosi con qualcosa che la politica contemporanea fatica sempre più a vedere, perché ha nome “bellezza” e “grandezza”.

Marco Focchi

martedì 22 marzo 2011

Le Scuole di psicoanalisi, la scienza e la politica



Gabriella Ripa di Meana
Dialogo immaginario con Lacan
Nottetempo, Roma 2010




Un dialogo tra due personaggi, Lacan e un analista che rappresenta il punto di vista dell’autrice, mette a confronto una visione storica della psicoanalisi con i problemi che la psicoanalisi incontra oggi, in un’attualità in cui si sente stretta.
Le parole di Lacan, pur costruite in un montaggio, sono riprese in modo letterale da diversi testi. Le parole dell’analista suo interlocutore esprimono le preoccupazioni per una pratica che nella morsa delle ideologie contemporanee trova con difficoltà il proprio spazio.
Vorremmo credere infatti di vivere in un epoca postidelogica, ma l’autrice mette bene in risalto il peso dominante dello scientismo nel nostro mondo. Lo scientismo è l’ideologia dell’epoca in cui lo spazio pubblico non è più quello della politica ma quello burocratico delle amministrazioni, è l’ideologia che innalza il sapere e il metodo scientifico a fonti uniche di certezza e a metro di misura che obbliga alla conformità.
Scienza e scientismo naturalmente sono cose diverse, e se la prima è un metodo di analisi, di conoscenza e di intervento sulla realtà i cui risultati, nelle applicazioni della tecnologia, sono tangibili e incontestabili quando riferiti al mondo oggettivo, la seconda estende questo metodo in modo improprio, cercando di dominare con il calcolo anche i campi abitati della soggettività, soggiogando all’imperio del numero i fattori elusivi, imprevedibili, legati all’improvvisazione in cui il soggetto si manifesta. L’esempio maggiore sono le ricerche statistiche, con il loro schiacciamento uniformante, la cancellazione delle verità specifiche, e l’appiattimento conformista del comportamento.
Il libro si apre con il tema della crisi della psicoanalisi, che appartiene già a ieri, distinguendola dal momento attuale, in cui la psicoanalisi è considerata sotto attacco. Si tratta di un distinguo significativo. La crisi, di cui si parlava negli anni ’80, era infatti un problema di paradigma concettuale, di efficacia clinica, e rifletteva le difficoltà di un certo orientamento all’interno della galassia psicoanalitica che cercava di adeguare i propri concetti e i propri metodi a quelli della scienza, incontrando necessariamente dei punti d’arresto proprio sul piano della clinica. Ridurre l’interpretazione a una competenza, lo psicoanalista a uno specialista depositario di un sapere costituito, proiettato sul calcolo dell’interpretazione, spezzava la punta dell’imprevedibile, solo preservando il quale risulta possibile il trattamento di un soggetto che non sta alle leggi del numero. La crisi della psicoanalisi era quindi crisi di una corrente all’interno del variegato mondo psicoanalitico, ed era un problema clinico ed epistemologico.
L’attacco alla psicoanalisi è invece un problema politico, e direi che abbiamo oggi capito quanto la clinica psicoanalitica sia innervata nella politica, e ad essa debba rispondere più che alle domande mal formulate degli epistemologi positivisti, come Grünbaum.
Il problema attuale della psicoanalisi è politico perché la psicoanalisi tutela uno spazio che il regime puramente amministrativo dell’impolitica tende a far scomparire.
L’economia della felicità promossa attualmente dallo psicoeconomista Richard Layard in Gran Bretagna ne è solo l’esempio più evidente. Si tenta di arruolare un esercito di psicologi cognitivisti per garantire una lotta alla depressione su scala nazionale uniformando gli obiettivi da raggiungere ai criteri di una felicità benthamiana aggiornata da una misurabilità garantita da Kahneman.
Nella misura in cui le istituzioni governative si occupano di un benessere identificato con la felicità, l’inconscio diventa un problema politico che balza in prima linea.
Il “Dialogo immaginario con Lacan” è traversato da questi temi, che toccano da vicino ormai chiunque si occupi di cose “psi”, ed esprime una potente spinta antistituzionale, aprendo la sua critica a tutto campo, portandola però anche su un aspetto che andrebbe invece preservato, come le Scuole di psicoanalisi, considerate dall’autrice negative per il desiderio e incentrate sull’autorità.
Il problema è che l’autorità non è l’autoritarismo, e che le professioni impossibili elencate da Freud, insegnare, governare, psicoanalizzare, sono impossibili proprio perché non si fondano su un’operatività tecnica, e trovano la propria risorsa in una auctoritas, che è solo sinonimo di dignitas. Non c’è insegnamento senza il consenso di chi vuole imparare, malgrado le pretese tecniche d’apprendimento messe a punto nei laboratori di mimesi scientifica della psicologia, e chi vuole imparare dà il proprio consenso se rispetta chi insegna. Si capisce perché, in un sistema scolastico come l’attuale, fatto per umiliare gli insegnanti, l’istruzione sia a repentaglio. Che non ci sia una téchne politiké lo spiegava già Socrate, e la crisi della politica non viene da una perdita di potere, da una parcellizzazione taylorista e fordista dell’organizzazione politica, ma da un depotenziamento di quelle che Bagheot chiamava le dignified parts of the Constitution. La psicoanalisi ha il proprio motore non nella competenza, nell’abilità tecnica, nella perizia dello psicoanalista, ma in quel perno della traslazione che è il soggetto supposto sapere. Non cioè in un sapere da applicare ma in una funzione che, senza necessariamente coincidere con la persona dell’analista, ne autorizza la parola, dandogli un valore diverso da quello che ha nel dialogo quotidiano. Le Scuole di psicoanalisi non sono che l’organizzazione istituzionale, cioè proiettata nella durata, di questa funzione imprescindibile nella pratica psicoanalitica, e criticarla significa carezzare l’illusione di uno psicoanalista eroe solitario, sottratto allo spazio pubblico, chiuso nella eburnea turris di una solitudine immaginata come una vetta irraggiungibile, che è in realtà una resa senza condizioni all’ingranaggio che non importa ti dia l’illusione di non omologare te, se vince omologando tutti.

Marco Focchi