venerdì 13 dicembre 2013

Conferenza tenuta il 17 novembre 2012 a Barcellona




I nuovi testi saranno d'ora in poi pubblicati nel nuovo sito a cui rimanda il link qui sotto


L'inconscio e la mappe neuronali

lunedì 18 novembre 2013

La nevrosi ossessiva

Conferenza tenuta il 22 giugno 2013 a Madrid, presso la sede dell'Escuela lacaniana de psicoanalisis


La parte del seminario Le formazioni dell’inconscio su cui dobbiamo lavorare oggi ha come tema centrale la dialettica tra la domanda e il desiderio. Questa dialettica prende avvio con la distinzione individuata da Lacan tra desiderio e bisogno, e ha il proprio asse nella nozione di fallo, la cui definizione in termini di significante occupa tutta la parte finale del seminario.
Su queste basi, gli argomenti clinici principali che incontriamo nel seminario riguardano così la definizione del desiderio insoddisfatto nell’isteria, del desiderio annullato nella nevrosi ossessiva, e le diverse strategie nevrotiche nel rapporto con l’Altro a partire delle quali Lacan fornisce l’orientamento necessario per la conduzione della cura
Pur partendo da un concetto che potrebbe sembrare piuttosto astratto come le formazioni dell’inconscio, e della lettura di un testo di Freud a quell’epoca senz’altro poco considerato, poco letto dai clinici, come Il motto di spirito, Lacan giunge nel corso del seminario a sviluppare una stringente analisi del quadro clinico della nevrosi, mettendo a confronto i fenomeni che nella nevrosi ossessiva possono apparire simili a quelli della psicosi, pur fondandosi su diverse strutture, sviluppando la critica di una conduzione della cura retta a suo parere dalla suggestione  e distinguendola – grazie ai grafi che va costruendo durante il seminario – da una pratica  che ha la propria bussola nella traslazione.

La ripresa del concetto di pulsione

Possiamo dunque considerare Le formazioni dell’inconscio come uno dei seminari più ricchi, più istruttivi sul piano clinico e della pratica analitica. Credo dobbiamo però vedere come tutto questo importante sviluppo di temi clinici si muova sullo sfondo di un problema teorico che si fa luce nel corso del seminario, che lo percorre poi in tutta sua lunghezza, che trova qui una soluzione parziale, e che avrà pieno sviluppo solo nella metà degli anni Sessanta.
Il concetto che viene qui problematizzato, e che viene ripreso nel discorso di Lacan dopo essere stato espulso agli inizi del suo insegnamento, è quello della pulsione.
Il testo inaugurale dell’insegnamento di Lacan, quello che ne segna l’inizio, Funzione e campo della parola e del linguaggio, contiene infatti una vera e propria squalifica del concetto freudiano di pulsione, che viene ripresa negli stessi termini nel primo seminario su Gli scritti tecnici di Freud. Lacan sostiene infatti qui che la pulsione non è per niente un concetto di base nella psicoanalisi, è piuttosto al vertice della costruzione psicoanalitica, ed eminentemente astratta. Riconduce poi la funzione libidica all’immaginario, sostituendo all’idea freudiana di un conflitto tra pulsioni dell’io e pulsioni sessuali, la problematica di una dialettica tra immaginario e simbolico, e per il seguito la nozione di pulsione viene equiparata a una tendenza, e quando ricorre nel suo discorso viene sempre usata in questa accezione. La libido, così definita, è ciò che aderisce alle esche immaginarie, e fa da innesco ai comportamenti erotici.
Sullo sfondo di questa definizione c’è evidentemente l’etologia di Lorenz e di Timbergen, dove è sempre la configurazione di una specifica immagine a innescare i diversi comportamenti animali, predatori, di accoppiamento, di nutrizione.
Lacan riprende questo aspetto dell’etologia per collegare la libido all’immaginario, e per mostrare come nell’esperienza analitica l’immaginario affiori nei momenti di frattura, d’inciampo nel funzionamento della catena significante.
Il simbolico, in questa fase,  è considerato autonomo, c’è un’autonomia della catena significante. Normalmente il simbolo domina l’immaginario, e nei momenti di mancanza, d’interruzione, di stasi del significante, l’immaginario di nuovo prende il sopravvento. L’immaginario, da questo punto di vista, come recettore della libido, è quindi soltanto un fattore di disturbo nel funzionamento del simbolico.
Nel seminario quinto su Le formazioni dell’inconscio inizia tuttavia una riconsiderazione del concetto di pulsione, e proprio a partire della dialettica tra domanda, desiderio e bisogno, a partire cioè dal momento in cui Lacan comincia a dare una trascrizione simbolica della pulsione.
Si avvia quindi, con il seminario quinto, e in particolare nella quarta parte, quella conclusiva, una riqualificazione della pulsione a partire dalla sua trascrizione simbolica, ed è una riconsiderazione avviata qui e che trova compimento nel seminario successivo, il sesto.

Il ruolo dell’intersoggettività

In questa fase Lacan considera l’analisi come una relazione intersoggettiva, caratterizzata dal fatto di trovarsi in relazione con un soggetto parlante. Lacan sottolinea questo aspetto per marcare una differenza rispetto alla psichiatria e alla nosografia classica, e quindi rispetto all’epistemologia medica che informa il rapporto tra il medico e il malato, dove l’atto medico è in rapporto con qualcosa di oggettivo, con l’oggetto malattia. Se quest’epistemologia trasferita tale e quale alla psicoanalisi, risulta inoperante, nello stesso modo in cui risulta inerte, dal punto di vista terapeutico, la psichiatria classica, che peraltro non è nata con ambizioni terapeutiche ma classificatorie.
La psicoanalisi non è dunque in rapporto con un oggetto, ma con un soggetto parlante, e quindi non con un elemento passivo, ma con qualcuno implicato attivamente.
Cosa significa questo? Significa innanzi tutto che abbiamo a che fare con un desiderio, e non con il sentimento di una spinta oscura e radicale a cui altrimenti sarebbe ridotta la pulsione (crf. Le desir et son interpretation p.795).
Il desiderio è quindi innanzi tutto la soggettivazione di questa spinta. La soggettivazione avviene attraverso il fatto che la pulsione esiste ed è definita, secondo Lacan, solo all’interno di una “sequenza temporale” – sono le sue parole – ed è questa sequenza che chiamiamo catena significante.
Tutte le proprietà e le incidenze con cui abbiamo a che fare in questa spinta – la pulsione ridefinita attraverso la catena significante – la disgiungono completamente da tutto ciò che potrebbe situarla come vitale, la rendono essenzialmente separabile da tutto ciò che la definisce nella sua consistenza vitale.
Chiaramente questo apre la strada a un ripensamento, a una riconsiderazione della pulsione di morte.
In questa prospettiva, sopratutto, si segna il distacco tra la struttura significante, presa nella sua autonomia, e la realtà naturale dalla quale il significante si separa per definirsi come autonomo. Qual’è qui l’aspetto significativo? La posta in gioco è l’iscrizione della psicoanalisi nel discorso scientifico, che per Lacan in quegli anni è un obiettivo perseguito attraverso il paradigma strutturalista, che prende per l’appunto appoggio sull’autonomia dal simbolico.

La vita è altrove

È il motivo per cui Lacan critica (all’inizio del cap. XXIII) la tendenza riduzionista che tende a interpretare Freud come il rappresentante di una sorta di naturalismo, il cui sforzo sarebbe di ridurre la realtà umana alla natura. Andare in questa direzione sarebbe un modo di assoggettare la psicoanalisi a una epistemologia delle scienze naturali, al modello della fisica, ed è la via che si è tentato di seguire nel mondo anglosassone.
Lacan considera piuttosto che l’opera di Freud afferma un patto tra l’essere dell’uomo e la natura. Cosa significa?
È interessante qui il termine di patto che Lacan utilizza, perché un patto passa necessariamente attraverso la parola, la parola data. Lacan vede infatti l’uomo di fronte alla natura “in una postura diversa da quella di un portatore immanente di vita.” Questo implica una critica alla definizione classica dell’uomo come animal rationale, come zoon logon echon.
Non essere un portatore immanente di vita significa per il soggetto essere esterno alla vita, significa che la vita non gli appartiene in modo immediato, che è qualcosa con cui deve trovare il contatto. Si sente a volte nella clinica l’espressione di questa esigenza, come il paziente che dopo avermi raccontato dettagliatamente dei sogni con un ampio sviluppo narrativo insorge e li rifiuta dicendo: “Basta con i film, ora voglio entrare nella vita vera”. Dov’è però la vita vera? “La vita è altrove” è un titolo di Kundera che esprime perfettamente quest’idea, ed è un tema letterario che va da Rimbaud a Breton, a Kundera. Questo senso di distacco dal flusso profondo della vita è uno dei grandi temi moderni, e sicuramente quando nei suoi ultimi testi Lacan sostiene che dalla vita non sappiamo niente, che solo possiamo provare un godimento della vita, la vita diventa uno dei nomi del reale. La vita è irrelata rispetto al parlessere, che se ne sente traversato senza poterla cogliere.
Nel momento però in cui Lacan persegue l’inscrizione della psicoanalisi nella scienza isolando il significante, definendo l’autonomia del simbolico, si rende conto tuttavia di non poter ridurre l’uomo al puro meccanismo significante, sente che deve esserci almeno un punto in cui questo meccanismo si collega alla vita, un punto in cui il soggetto parlante non è solo fatto di parole, e il senso del patto è questo: attraverso la parola ricongiungere le parole con la vita.

La funzione del fallo

Il punto in cui il sistema significante si ricongiunge con la vita, ciò che sigla questo patto, è il significante fallico, che Lacan definisce qui come: “Il punto centrale, il più sensibile e il più significativo di tutti gli incroci significanti che esploriamo nel corso dell’analisi del soggetto.”
Il fallo è uno dei temi centrali del seminario di cui ci stiamo occupando. Lacan lo introduce plasmandone, trasformandone man mano il concetto, e questo è stato uno degli aspetti su cui Miller ha particolarmente insistito nella sua lettura del Seminario V. Il libro che racchiude il Seminario V, ha detto, è un libro dove l’inizio non è contemporaneo della fine. Questo significa che non ha il carattere sistematico di un’esposizione di concetti compiuti, ma piuttosto è una ricerca in continuo movimento, da una lezione all’altra, e lo si nota in particolare per quanto riguarda la nozione di fallo. Miller vi ha particolarmente insistito, è stato uno degli assi portanti sua lettura di questo seminario. Il fallo, che viene introdotto come fallo immaginario e come significato nell’operazione della metafora paterna, si trasforma poi in significante, perché essendo il significato in modo elettivo, rappresentando il fatto stesso del significato, deve essere indicato come un significante, il significante di tutti gli effetti di significato. Si tratta quindi di uno spostamento fondamentale, di una tensione interna a una delle nozioni nodali di questo seminario.
Nella parte che ci interessa oggi questo spostamento d’accento dal fallo come significante al fallo come significato si è già realizzato, e questa nozione prende il suo pieno sviluppo come significante del desiderio.

Iil desiderio nell’isteria

Lo sviluppo che Lacan dà, in questa parte, alla nozione di desiderio, è illustrato nelle diverse strutture dell’isteria e della nevrosi ossessiva, e possiamo dire che è qui più che in ogni altro passaggio del suo insegnamento che Lacan mette in luce una vera e propria clinica del desiderio.
Attraverso l’analisi diventata classica del sogno della bella macellaia, Lacan ha caratterizzato il desiderio isterico come essenzialmente insoddisfatto.
La bella macellaia domanda l’amore, perché la domanda d’amore è la domanda che si profila all’orizzonte di ogni domanda, ma desidera caviale, e al tempo stesso però non vuole che le si dia caviale.
Cosa ci mostra in realtà Lacan in questo caso? Che è l’Altro che l’isterica deve mantenere insoddisfatto per avere nell’Altro un posto come soggetto.
L’insoddisfazione del desiderio nell’isteria è fortemente correlativa alla struttura per cui il desiderio è il desiderio dell’Altro. Ora, nella dialettica tra domanda e desiderio, Lacan parla di un carattere incondizionato della domanda, e di una condizione assoluta del desiderio. Cosa significa?
La domanda trascrive nel significante l’espressione del bisogno e formula, mette in forma nei termini dell’Altro la richiesta, l’esigenza del soggetto. Il soggetto non può ottenere soddisfacimento se non passando attraverso l’Altro. Non c’è una presa diretta del soggetto sull’oggetto di soddisfacimento, occorre la mediazione dell’Altro, e quindi è necessario passare per il circuito della domanda. Il fatto che sia indispensabile la presenza dell’Altro significa che la domanda, al di là di tutti gli oggetti richiesti, si rivolge innanzi tutto alla presenza o all’assenza dell’Altro, ed è in questo senso che diventa domanda d’amore.
Il carattere incondizionato della domanda è quello della domanda d’amore, ed è incondizionato nel senso kantiano, è cioè indipendente da ogni condizione sensibile o fenomenica.
Il desiderio invece, al di là della domanda, è una condizione assoluta. Qui troviamo propriamente uno sviluppo dialettico in senso hegeliano: la tesi è il bisogno, l’antitesi che lo nega è la domanda d’amore, il desiderio è l’Aufhebung, ed è condizione assoluta perché conserva il distacco dall’elemento sensibile costituito dal bisogno, e lo innalza al carattere irriducibile della mancanza, della pura perdita siglata dal fallo.

La nevrosi ossessiva

Nella nevrosi ossessiva, che Lacan studia nell’ultima parte del seminario, questa dialettica va in cortocircuito, le cose si ribaltano, ed è la domanda ad assumere il carattere di condizione assoluta.
Cosa significa che la domanda assume il carattere di condizione assoluta? Vuol dire che il desiderio non si presenta come un’apertura della domanda, ma insiste nella domanda stessa.
Mentre nell’isteria l’apertura della domanda porta ad appoggiare il proprio desiderio all’identificazione con l’altro immaginario, e a sviluppare l’intersoggettività dove il desiderio è il desiderio dell’altro, il desiderio nella nevrosi ossessiva si avvita sulla domanda arroccandosi in modo intrasoggettivo.
Nella nevrosi ossessiva l’intersoggettività infatti si chiude, la domanda si ripiega su se stessa, s’intrappola nelle proprie antinomie. La domanda non è allora ciò che proietta verso un al di là, il desiderio, non proietta al proprio orizzonte la domanda d’amore come richiesta delle presenza dell’Altro.
La domanda include invece la condizione assoluta del desiderio, include il fallo, e in questo diventa ossessiva, diventa idea fissa, come illustra Lacan con l’esempio del bambino che chiede una scatolina, e  sarebbe una richiesta normale, ma che viene formulata in modo tale da risultare insopportabile per i genitori, e che viene reiterata incessantemente, come un assillo.
Per l’isterico l’Altro è l’intermediario che dà accesso al suo desiderio, e da qui nascono le difficoltà che lo fanno incontrare con quel che si può chiamare l’estraneità del desiderio – giacché l’Altro è posseduto a sua volta da un suo desiderio – e il fantasma attraverso l’identificazione isterica trova una sua via di realizzazione.
Per l’ossessivo invece, dice Lacan, i fantasmi restano allo stato di fantasmi e si realizzano solo in situazioni eccezionali, che restano poi per il soggetto deludenti.

La macchina per fare l’amore

Cosa significa? Per esempio ho visto per diversi anni un ossessivo la cui richiesta iniziale era di avere successo con le donne, e l’idea che di questo si era fatto era avere successo consistesse nell’imparare le tecniche per conquistare le donne. Non voleva quindi parlare con le donne, corteggiarle  e conquistarle, ma acquisire delle potenzialità oggettive, che immaginava andassero da protocolli su cosa dire al primo incontro, a ricette su come condurre il discorso dopo i primi contatti, fino all’ipnosi, considerata come un potente strumento in grado di aggirare la loro volontà per farle cadere nella sua rete. Un giorno questo paziente fa una sogno dove va in auto con una ragazza fino a un luogo nella periferia di Milano, umido e nebbioso. Lasciano la macchina per passeggiare. Camminano a lungo, fino a perdere di vista l’auto, e a un certo punto si rende conto che la ragazza è disponibile. Deve approfittare dell’occasione, ma non può farlo lì, in un campo umido e sterrato. Torna indietro allora a cercare “la macchina per far l’amore”. Naturalmente intende dire che vuol tornare all’auto per appartarsi con la ragazza, ma l’equivoco della “macchina per fare l’amore” è in questo caso particolarmente significativo. La sua idea dell’approccio con una donna è in effetti completamente meccanica, e nella “macchina per fare l’amore” non possiamo non riconoscere la dimensione fallica, che si presenta qui non come espressione del desiderio, ma come automatismo che prende il posto della messa in gioco del desiderio. Cosa si vede qui chiaramente? L’inclusione del fallo nella domanda, sin dalla sua prima formulazione, e l’esclusione del desiderio dell’Altro, giacché l’idea non è di risvegliare e attrarre a sé il desiderio femminile, ma di far entrare la donna negli ingranaggi di un meccanismo che sostituisce il gioco desiderante con il controllo tecnico, realizzando la separazione del significante fallico dal desiderio.
In questo soggetto vediamo in fondo verificarsi la riduzione del fallo da significante del desiderio a strumento, quello strumento sulla cui presenza Lacan insiste nella descrizione del fantasma sadico e che ha un posto di rilievo nell’economia dell’ossessivo
Che lo strumento sia rappresentato dalla frusta o dal priapo, che spesso compaiono nelle descrizioni dai libertini sadiani, ne è comunque chiaro il funzionamento, cioè essere il tramite di un imposizione di godimento, provocare nella vittima – la vittima sadiana per eccellenza è Justine, l’innocente – un orgasmo contro la sua volontà, un orgasmo che deve essere comprovato e reso visibile da quel che Sade chiamava eiaculazione femminile, e che oggi si chiamerebbe squirting.
Naturalmente se questo dispositivo funziona molto bene nelle inscenazioni sadiane, ha evidentemente importanti contraccolpi nel nevrotico, dove genera senso di colpa. L’ossessivo deve infatti fare i conti con un superio particolarmente accentuato.

L’exploit dell’ossessivo

L’effetto del superio si manifesta in modo particolarmente evidente nella tipica condotta dell’ossessivo – che Lacan descrive molto bene – di chiedere il permesso. Se per l’isterico il desiderio è preso nella logica della trasgressione, nella logica sans-foi, nell’ossessivo c’è invece una dipendenza dall’Altro, c’è la necessità di subordinarsi alla logica del merito, e occorre aver fatto il proprio dovere per poter godere con il consenso dell’Altro.
Si ha così il tema dell’exploit. L’ossessivo si assoggetta docilmente al proprio dovere,  fa il proprio lavoro, esegue senza discutere i compiti più duri e più spossanti. Il lavoro è potente nell’ossessivo – dice Lacan – perché è svolto con diligenza per liberare il tempo dalla grande vela, che sarà il tempo delle vacanze. Naturalmente poi le vacanze saranno deludenti, saranno passate in coda in macchina per raggiungere una splendida località turistica sovraffollata e invivibile. Ma non importa, quel che conta è ottenere il permesso dall’Altro.

Slittamenti progressivi di piacere

Ho visto un paziente sposato con una donna che non amava, che ha corteggiato a distanza per dieci anni la donna dei suoi sogni, con piccoli avvicinamenti progressivi, senza mai forzare, senza mai passare la soglia dell’atto. Sono quei glissements progressifs du plaisir di cui parlava Alain Robbe-Grillet.
Slittamenti progressivi di piacere mi sembra una descrizione perfetta delle modalità erotiche  dell’ossessivo: si tratta di procedere con piccoli passi infinitesimali, senza mai rompere gli argini, come invece fa l’isterico, e di far avanzare il desiderio in clandestinità, o di mimetizzarlo, come dice Lacan.
La cosa interessante è che l’ossessivo in questa dialettica non si mette mai a repentaglio, non entra in nessuna situazione che costituisca un rischio per la posta maggiore, quella fallica.
In effetti, quel che conta non è mai messo in gioco nell’exploit, il suo desiderio non ha niente a che fare con ciò su cui il soggetto dimostra le proprie capacità. Non incorre, in altri termini, nella castrazione, non concorre per conquistare il premio, il fallo, per accedere al desiderio dell’Altro, perché – dice Lacan – l’Altro con cui gioca in fin dei conti non è mai se non un altro che è lui stesso, che di partenza gli lascia la palma della vittoria.
È però proprio perché il fallo è incluso nella domanda che il rapporto con l’altro non si sviluppa in una dialettica dove il desiderio del soggetto è il desiderio dell’altro, ma in un rapporto di distruzione.
Il desiderio dell’ossessivo è bloccato perché di fondo è un desiderio di distruzione, e da parte del soggetto c’è il timore, manifestando il proprio desiderio, di poter subire una ritorsione equivalente da parte dell’altro, di essere distrutto nello stesso modo in cui vuole distruggere.
Ritroviamo in questo seminario riformulata la strategia dell’ossessivo che Lacan aveva già descritto in Funzione e campo presentandola come una variante alla lotta mortale tra schiavo e padrone. Lo schiavo si è sottratto alla morte, ne ha evitato il rischio che avrebbe dovuto affrontare nella lotta di puro prestigio. Sapendo però di essere mortale, sa che anche il padrone lo è, e che anche lui può morire. Accetta quindi di lavorare per il padrone e di rinunciare nel frattempo al godimento. Resta così in attesa e subisce così una duplice alienazione: l’espropriazione del prodotto del proprio lavoro e la mancata realizzazione della propria essenza nell’opera di questo lavoro, perché nell’attività che fa per il padrone lui “non c’è”. Dov’è allora? È nel momento, che anticipa, della morte del padrone, momento a partire dal quale potrà vivere. Con la morte del padrone, idealmente, comincia la festa.
La logica dell’exploit dell’ossessivo nel Seminario V riprende la strategia hegeliana descritta in Funzione e campo.
L’ossessivo può lavorare, può fornire prestazioni eccezionali, si guadagna dei meriti presso uun padrone che non lo riconosce, e aspetta che questi muoia.

La differenza tra l’exploit e l’acting out

Se riprendiamo questo aspetto capiamo meglio la differenza che Lacan fa qui tra l’exploit dell’ossessivo e l’acting-out, dove sembra quasi descrivere l’exploit come una forma particolare di acting-out. La differenza che mette in risalto però è che l’acting-out è un messaggio. Cosa vuol dire? L’exploit non è un messaggio? Non è forse realizzato per comunicare all’Altro la propria bravura e guadagnare punti ai suoi occhi? Il fatto determinante è che tuttavia nell’exploit il soggetto “non c’è”, mentre nell’acting-out il soggetto “c’è”. L’acting-out si verifica in una logica intersoggettiva, il soggetto cerca l’altro, mentre nell’exploit l’ossessivo attende solo la sparizione dell’altro.
Ora, con queste premesse, qual è la posizione che l’analista deve tenere nella direzione della cura? Lacan affronta il problema da un’angolatura classica, quella della differenza tra la traslazione e la suggestione. Si tratta di un punto di vista che riprende un tema tradizionale nella storia della psicoanalisi, e che rispecchia un dibattito importante degli anni Venti.
Essendo nata nella stessa culla dell’ipnosi, la psicoanalisi ha inizialmente bisogno di definire i propri termini, scartando e lasciando sullo sfondo quelli che caratterizzano l’ipnosi.
È il problema di definire l’identità della psicoanalisi, che ne traversa la storia. La psicoanalisi si definisce differenziandosi. La questione si ripresenta con forza rinnovata negli anni Cinquanta con il dibattito sugli standard. Nel momento in cui cominciava a farsi strada una psicoterapia di ispirazione psicoanalitica – penso in particolare ad Alexander, ma è solo il pioniere di una tendenza poi sempre cresciuta – gli psicoanalisti devono definire gli standard che caratterizzano la psicoanalisi, e il dibattito sugli standard – con i quali Lacan, sappiamo, entra in polemica – è solo un capitolo in questo vasto tema sull’identità della psicoanalisi.

Traslazione/suggestione

Nel Seminario V Lacan usa l’opposizione traslazione/suggestione per definire la posizione dell’analista, che dunque è definito avendo sullo sfondo il ricco filone del dibattito sull’identità della psicoanalisi.
Nel grafo Lacan distingue bene la linea della traslazione e quella della suggestione, anche se si rende ben conto di come sia sottile il confine che le separa – e per concettualizzarne la distinzione fa leva sulla definizione della domanda.
Che cos’è dunque la domanda? Nel modo più semplice possiamo dire che la domanda è un’articolazione significante con la quale il soggetto chiede soddisfacimento. Sappiamo però che all’orizzonte della domanda relativa all’oggetto di un bisogno c’è la domanda d’amore, la richiesta della presenza dell’Altro. Questa richiesta si apre su una diversa articolazione significante che, dice Lacan, è quella della traslazione.
A partire da questo problema si pone una questione fondamentale nella conduzione della cura, che spiega perché lo psicoanalista non debba rispondere alla domanda. Abbiamo appena visto infatti  che la domanda è domanda di soddisfacimento. Qualunque risposta risulterebbe tuttavia  insoddisfacente, perché dietro da domanda di soddisfacimento c’è la domanda d’amore. Sospendere la risposta porta quindi la domanda ad articolarsi in modo diverso, a svilupparsi come domanda d’amore e a instaurare la dimensione della traslazione. Diversamente, ogni risposta alla domanda nella sua forma iniziale risulta suggestiva, perché la blocca sul circuito del bisogno.
Ci si può per altro verso rendere ben conto delle antinomie presenti in questa posizione. L’operazione che permette di tenere distinti il piano della suggestione da quello della traslazione è l’astensione, il fatto di non ratificare la domanda. Lacan nota tuttavia che con il fatto stesso di essere lì, presenti ad ascoltare, ad accogliere la domanda, consentiamo che surrettiziamente s’insinui un’altra forma di soddisfazione, che non è reale, che avviene solo sul piano verbale, ma è sufficiente. È quel che un po’ di anni dopo, nel Seminario XX, Lacan avrebbe chiamato la soddisfazione del bla-bla-bla, ed è quel che facilmente può portare l’analisi verso la china dell’interminabile.
Con la nostra presenza siamo nocivi, dice Lacan, perché la presenza stessa è una risposta, e di per sé confonde nuovamente il piano della suggestione con quello della traslazione. È il versante per cui la traslazione realizza una chiusura dell’inconscio o, per altro verso, è quel che Freud identificava come resistenza nella traslazione. Il soggetto si incanta a parlare con qualcuno che lo gratifica del proprio ascolto, che lo riconosce, e questo lo fa entrare in un circuito infinito. È il motivo per cui occorre un taglio.
C’è qualcosa infatti tra le due linee della traslazione e della suggestive, qualcosa che resiste alla suggestione, che fa si che anche nell’ipnosi il soggetto non ne sia mai completamente preda, ed è il desiderio.
Ora il seminario in cui sviluppa più ampiamente il tema del desiderio è quello dell’anno successivo, che ha come titolo Il desiderio e la sua interpretazione, dove il punto di interessante novità sarà l’articolazione del desiderio con il fantasma.

Il Nome del Padre e il metalinguaggio

Nel seminario V, abbiamo visto, è pienamente sviluppata una clinica del desiderio, insoddisfatto, vietato, bloccato, e anche qui il desiderio è presentato già in rapporto con l’interpretazione, ma c’è una differenza, e credo che il modo in cui viene presentato il desiderio in questo seminario dipenda dal fatto che viene qui subordinato a una norma, chiaramente espressa nella metafora paterna. Il fatto che il desiderio sia sottoposto a una norma deriva dalla concezione che Lacan si fa della struttura dell’Altro. In questo seminario l’Altro è il luogo della parola, ma è un luogo che in quanto tale deve essere a sua volta simbolizzato, il che significa che c’è un Altro dell’Altro.
C’è l’Altro come simbolico, e c’è un’ulteriore livello del simbolico che deve simbolizzare questo luogo.
La definizione dell’Altro che Lacan introduce qui non ha nulla di arbitrario, ed è perfettamente congruente con i risultati della logica contemporanea.
Possiamo rapidamente vedere di cosa si tratta. La logica contemporanea nasce infatti dal tentativo da parte di Frege di fondare la matematica su basi logiche. Frege dedica a questo progetto uno straordinario sforzo i cui risultati raccoglie nel suo grande lavoro I fondamenti dell’aritmetica.  Si sa però come va la storia: appena pubblicati I fondamenti Frege riceve da Russell una lettera  dove gli segnala un vizio formale che fa crollare tutta la costruzione.
Russell però non vuole affatto demolire il lavoro di Frege, vuole anzi proseguirne il progetto, e si preoccupa di porre rimedio alla difficoltà incontrata da Frege. La difficoltà consiste nell’aver dato per scontato che data una definizione esista anche l’oggetto definito. L’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi infatti, anche se definito con una proprietà del tutto ragionevole, dà luogo a un’antinomia insolubile.
Russell cerca di risolvere il problema attraverso il metodo della stratificazione. Le contraddizioni emerse nel tentativo di fondazione logica della matematica nascono, nell’analisi di Russell, dalla presenza di riflessività o autoriferimenti. Questo aspetto caratterizza la totalità illegittima, la cui esistenza nasce solo da un presupposto linguistico, ovvero la cui esistenza, da un certo punto di vista, è semplicemente illusoria. La totalità illegittima nascondono infatti quelle che vengono chiamate definizioni impredicative, espressioni che definiscono un ente facendo riferimento all’insieme a cui l’ente appartiene, creando così un circolo vizioso.
La stratificazione è fatta proprio per impedire questo circolo vizioso. Per parlare del livello uno occorre porsi al livello due, per parlare del livello due occorre porsi al livello tre, e così via.
Quando Lacan definisce la struttura dell’Altro come qualcosa che richiede un Altro dell’Altro, si pone su questo piano di pensiero predicazionista e stratificazionista.
Cosa troviamo allora al livello due dell’Altro, quello in cui si trova l’Altro dell’Altro che permette di simbolizzare il simbolico? Troviamo il Padre come “significante di secondo grado che autorizza e fonda tutto il sistema dei significanti.
L’Altro dell’Altro, il padre, è l’Altro della legge, l’Altro del padre morto che Lacan ritiene indispensabile perché altrimenti l’universo del linguaggio non potrebbe articolarsi in modo tale da mostrarsi efficace nella strutturazione del desiderio.
“Efficace nella strutturazione” è l’espressione utilizzata da Lacan, e credo che efficace in questo caso significhi “coerente”, consistente in senso logico. Il Padre è necessario perché il desiderio sia consistente, cioè normale. Il desiderio è normale se è regolato metalinguisticamente da un Altro dell’Altro paterno, e l’articolazione tra desiderio e fantasma che appare nel seminario dell’anno successivo si impone a partire dall’assunto che non c’è metalinguaggio, ovvero dalla messa in discussione della posizione paterna.
L’Altro è un luogo organizzato, dice Lacan, e non si capisce chi avrebbe potuto organizzarle se si prescinde dal Padre come luogo simbolico della legge. Non abbiamo ancora realizzato un’articolazione perfetta. – aggiunge – Formuliamo solo un’ipotesi di partenza, che serve per illustrare il nostro pensiero, per rendere conto di questa marca nell’Altro in quanto tale, che è la marca della castrazione.
L’Altro dell’Altro è dunque necessario perché la castrazione s’inscriva nell’Altro. La mancanza non appartiene al simbolico in modo immanente, la sua marca deve essere impressa dal padre. Ciò presuppone un Altro che esiste, un altro consistente, un Altro organizzato.
Lacan cambierà posizione esattamente l’anno seguente, nel seminario Le désir et son interpretation, dove afferma “Il n’y a pas d’Autre de l’Autre” che è l’asserzione dell’inconsistenza dell’Altro, l’affermazione della sua inesistenza.
Questo significa inscrivervi che la mancanza o l’antinomia come immanenti. Il fatto che l’Altro abbia in sé la marca della mancanza come desiderio, ci mostra che l’insoddisfazione isterica o il blocco del desiderio nell’ossessivo hanno una radice comune nel carattere antinomico del desiderio,  giacché desiderare significa desiderare ciò che non si vuole, o volere ciò che non si desidera. La mancanza allora non è imputabile al padre, e il padre diventa piuttosto uno strumento.

Il desiderio di annullare il desiderio dell’Altro

Quest’antinomia che implica un’oscillazione tra due corni opposti non dialettizzabili, è particolarmente evidente nella logica del desiderio ossessivo o in quel che nella tradizione psicoanalitica è passato con il nome di ambivalenza.
La logica del desiderio ossessivo è di annullare il desiderio dell’Altro e Lacan ci tiene qui a differenziare bene la struttura ossessiva da quella psicotica. Annullare il desiderio dell’Altro, dice è diverso dall’assoluta impossibilità di coglierlo, come nella psicosi, dove mancano per questo le basi strutturali. Se le basi mancano è perché la preclusione del Nome del Padre induce una carenza metaforica che non permette di realizzare il significante fallico. Qui, nella psicosi c’è preclusione, Verwerfung.
Diverso è quel che accade per l’ossessivo, che si fondo sulla Verneinung sul diniego del desiderio dell’Altro. Ovvero: il desiderio dell’Altro è articolato, esiste, ma ci si mette davanti il segno no. Se dunque l’ossessivo è portato attraverso i suoi meccanismi di difesa all’annullamento e all’isolamento è perché si tratta di isolare o annullare qualcosa che esiste. Le cose esistono, si formula allora una domanda, ma si formula come domanda di morte.
La domanda di morte ha come risultato di distruggere l’Altro, ma la distruzione dell’Altro del quale il soggetto dipende porta con sé la distruzione del soggetto stesso, e dunque isolare, il meccanismo dell’isolamento, ha anche la funzione di salvare il soggetto dalla distruzione.
È questo però il motivo per cui la domanda di morte manda in impasse il desiderio ossessivo. La domanda di morte infatti non riguarda il nemico, colui che sarebbe normale pensare di distruggere, ma l’essere amato come, nel caso dell’uomo dei topi, era la donna dei suoi pensieri, o come per il bambino può essere la madre con la  quale intreccia una relazione di odio-amore.
 Lacan qui gioca con le parole dicendo che la domanda di morte è la morte della domanda, perché è una domanda che, necessariamente, si auto-blocca, e lascia il desiderio in un’oscillazione perpetua. Man mano infatti che il desiderio si avvicina alla propria realizzazione si attenua, perché vuole la distruzione di un altro che ama e che desidera quindi per altro verso a tutti i costi preservare.
Anche qui Lacan articola il problema considerando una diagnosi differenziale con la psicosi, perché il soggetto psicotico invece nella distruzione va fino in fondo, coinvolgendo anche se stesso, come vediamo nelle stragi che avvengono ogni tanto nei college americani, culminanti quasi sempre con il suicidio del protagonista.
Nella psicosi, dove si è spezzato il legame con il sentimento della vita, sentimento dato dal significante fallico, la macchina della distruzione non si ferma, non incontra il punto di arresto e d’inversione della morte della domanda come nella nevrosi ossessiva.
Se le voci ordinano al soggetto psicotico di distruggere, il soggetto distrugge. La domanda di morte, nell’ossessivo è il contraltare della domanda d’amore, è intrecciata con la domanda d’amore, che ne è l’altro versante, e per questo all’orizzonte di ogni domanda Lacan mette le tre passioni fondamentali, dell’odio, dell’amore, dell’ignoranza.

Marco Focchi

lunedì 28 ottobre 2013

L'insegnamento della psicoanalisi

Intervento all'incontro tenuto il 19 ottobre 2013 a Bilbao in occasione del XXV anniversario del Campo freudiano di Bilbao

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L'insegnamento della psicoanalisi

venerdì 18 ottobre 2013

La parola che cura







Argomento presentato al Convegno Il disagio della cultura nella nostra modernità, tenutosi il 12, 13 ottobre 2013 a Palazzo Cusani a Milano




La cura della parola passa attraverso il potere della parola. Una visione tradizionale della linguistica, quella saussuriana, che divide il segno tra significante e significato, porterebbe a dire che la capacità materiale del linguaggio è di significare, ovvero di comunicare, di trasmettere, di denotare.
Si tratterebbe in questo caso di una sorta di parola innocente, come l’ambasciatore che non porta pena. Ci sono gli oggetti nel mondo e il linguaggio ne veicola l’indicazione o il senso.
Il potere della parola però non riguarda una parola innocente, perché appartiene a una parola che esercita un’azione, che modifica ciò di cui parla o colui a cui si rivolge.
Il quesito è dunque: come la parola esercita il proprio potere, ovvero la propria azione? E soprattutto: come la esercita quando questa azione deve andare nel senso della cura? 
In modo diverso infatti, un modello di come la parola esercita il proprio potere lo abbiamo immediatamente: è quello del comando. La parola esercita il proprio potere facendosi obbedire. Perché possa funzionare in questo senso occorrono una gerarchia, una catena di comando, e dei mezzi disciplinari per piegare la volontà di chi è tenuto all’obbedienza.
Oggi non viviamo più in una società disciplinare, ma l’esercito, il carcere, la setta sono istituzioni sempre presenti dove questa modalità di funzionamento è la regola.
La parola funziona come comando se si accompagna a una violenza possibile, e questa violenza, quest’imposizione, sappiamo che fa parte in modo essenziale della tecnica. L’efficacia della tecnica è dovuta alla violenza con cui può imporsi e modificare i processi materiali, quelli che altrimenti seguirebbero il loro corso naturale. Si tratta di una violenza necessaria a controbilanciare quella che, su un altro piano, è la violenza stessa della natura. Basta pensare a quello che gli ecologisti chiamano eufemisticamente “biomassa”, che è essenzialmente la carne degli animali da preda che entra in nel ciclo alimentare dei predatori.
Nella natura tutto funziona in una concatenazione ininterrotta di azioni e di reazioni. L’efficacia di un farmaco per esempio, per restare nel campo della cura, dipende della forza con cui può legarsi chimicamente con il recettore, e tanto maggiore è la potenza di legame che il farmaco può esercitare, tanto maggiore è la sua efficacia.
È interessante notare che in questo caso si parla di “potenza” di un farmaco, e non di “potere”, termine che resta comunque riservato all’azione della parola, e non all’interazione diretta tra sostanze.
Dobbiamo allora considerare su piani diversi l’efficacia materiale e l’efficacia della parola. I poteri della parola necessitano di una mediazione, diversamente dalla potenza di una sostanza, benefica o venefica, che agisce direttamente sull’organismo.
Un altro modo in cui la parola esercita la propria azione è l’inganno. La seduzione passa per la via dell’inganno. Può trattarsi della seduzione amorosa o della forma di persuasione che circola attraverso i mille canali della promozione commerciale, amplificati dai grandi dati messi a disposizione degli algoritmi della rete, dai siti di socializzazione, come Facebook o Google, che tutti usiamo e dai quali dobbiamo ancora imparare bene come proteggerci.
Abbiamo dunque una via dove il potere della parola è veicolato dal comando, e dove l’azione efficace implica violenza o costrizione. Abbiamo poi una via che mette in gioco la seduzione che funziona attraverso l’aggiramento o il raggiro della volontà del soggetto. Abbiamo inoltre il modello per cui l’efficacia di una sostanza si esercita attraverso l’azione materiale diretta, con l’inibizione o la sollecitazione di un recettore.
Il potere della parola, nella psicoanalisi, non passa però per nessuna di queste vie. Nella psicoanalisi il potere della parola può aver luogo solo se è sostenuto dalla traslazione, e può svilupparsi solo se viene tenuto in riserva, se non viene esercitato.
Questo paradosso prende senso se consideriamo la parola al di fuori della sua funzione comunicativa, o se non la prendiamo come parola d’ordine, e la comunicazione quotidianamente trasmessa attraverso i mezzi di comunicazione di massa è per lo più un passaggio di parole d’ordine.
La parola nella psicoanalisi passa per un’altra via, che non è quella della comunicazione, ma quella del patto, che implica la fides. È la dimensione studiata dai linguisti per cui se è il sindaco a pronunciare: “Vi dichiaro marito e moglie”, effettivamente si diventa marito e moglie. Il potere della parola, in questo caso, risulta effettivo solo se sostenuto attraverso l’autorità. Occorre ci sia una posizione di autorità costituita perché la parola funzioni non come ordine, non come inganno, ma come parola che impegna.
Questo vale per tutte le tre le professioni impossibili elencate da Freud: la politica, l’insegnamento, la psicoanalisi. C’è un’autorità che sostiene l’azione politica, c’è un’autorità che consente la trasmissione del sapere, c’è un’autorità analitica.
C’è stato un ampio dibattito sul tema dell’autorità analitica e possiamo dire  che, nel nostro orientamento, l’autorità non viene dalla competenza, o da quel sapere su cui la figura dell’esperto fonda il proprio prestigio, o semplicemente la propria notorietà, che è il sapere esposto, ma viene dal sapere supposto, dalla relazione di traslazione. La parola dell’interpretazione, la parola dell’analista, ha valore se è proferita nell’ambito in cui funziona un soggetto supporto sapere.
È il motivo per cui il potere della parola in psicoanalisi rimane sempre in riserva. Non funziona infatti sulla base di un sapere esposto, come nel discorso accademico, o come nella posizione dell’esperto, ma sulla base di un sapere supposto.
È il sapere supposto a rendere credibile la parola dell’analista, e quindi a renderla efficace proprio in quanto credibile. Potremmo rivisitare tutta la fenomenologia della traslazione positiva e negativa in questa luce. La traslazione è positiva quando il soggetto supposto sapere rimane credibile. È negativa quando viene temuto l’inganno.
Come dicevano i romani: “Pacta sunt servanda”, e il legame di traslazione vacilla se  si profila l’idea che il foedus possa essere fractum, se il patto può essere sentito come fedifrago. 
Si tratta, nella parola come patto, di una linea di pensiero classica, che Lacan fa sua nella sua fase strutturalista. In una prospettiva meno classica, meno dipendente dal giudizio di verità o falsità che rischia sempre di essere riassorbito nella valutazione scientifica o di cadere sotto l’ombra della morale, l’etica della parola che cura è quella della parola in atto, quella che contrassegna un particolare momento d’irruzione pulsionale.
L’esempio più espressivo è una parola, “teta veleta”, con cui Pasolini indicava una parte del corpo, l’incavo del ginocchio, che l’aveva colpito e turbato quando, a tre anni, era rimasto attratto e affascinato da uno dei ragazzetti con cui giocava “È la prima parte del corpo che mi ha colpito come corpo”.
L’uso del linguaggio qui prescinde dal vero e dal falso, e quindi dal credibile.
“Teta veleta” non è una parola a cui si tratti o no di credere, perché contrassegna piuttosto qualcosa che s’impone, un flusso da cui si è investiti, un tempo di apertura della vita che travolge come una piena.
È un battito in cui la vita è non messa al vaglio dal vero o dal falso, non è sottoposta al tribunale della ragione, perché si scatena come un turbine in cui il soggetto è trascinato. Le passioni non sono vere o false, le passioni investono con la loro potenza, e le parole come “teta veleta” sono allora semplici segni sulla geografia del corpo, come mappe del tesoro per riconoscere dove la pulsione ha avuto un’eruzione, e al tempo stesso sono come dighe per contenerla, o come marche di un evento impensabile.
Se prendiamo questa prospettiva l’esperienza psicoanalitica non è allora semplicemente un percorso che insegue la verità nascosta dell’inconscio, perché si mette sulle tracce dell’inconscio piuttosto come con la pista di sassolini di Pollicino. È una pista però che non riconduce a mamma e papà, alla logica edipica, perché apre l’inconscio al di là della dimensione mitica, lo fa aderire al corpo, ne disegna la geografia, ma su una mappa che non è quella di Mercator, cioè una mappa estensiva, ma piuttosto una di quelle mappe che vediamo animate quando ci danno le previsioni del tempo, con punti freddi e caldi che si scontano e creano cicloni, zone di alta e bassa pressione da cui nascono tempeste.
La parola che cura non è quella educata e formale, disposta secondo le leggi della metafora e della metonimia, ma quella meteorologica, pasoliniana o joyceiana, che traversa le turbolenze della vita non per pacificarne i conflitti, ma per renderli praticabili, e per canalizzarne la potenza più che per contrastarla, assentendo alla pulsione e facendo del sintomo, alla fine, un mezzo di godimento.

Marco Focchi






venerdì 13 settembre 2013

lunedì 15 luglio 2013

La psicosi ipermoderna: da Schreber a Wittgenstein


Seminario tenuto da Marco Focchi a Londra, il 9 marzo 2013, per la London society of the New Lacanian School, presso la University of London Student Union.

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La psicosi ipermoderna: da Schreber a Wittgenstein


lunedì 17 giugno 2013

Setting standard e setting lacanianao



Relazione presentata al Congresso AMP di Comandatuba nell'agosto 2004

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Setting standard e setting lacaniano

mercoledì 8 maggio 2013

L'innamoramento e gli equivoci della sopravvalutazione erotica


Ripresa di alcuni temi sviluppati nel dibattito dopo la conferenza  tenuta a Milano il 5 maggio 2013 nell'ambito della rassegna Filosofia sui Navigli 
 
di Marco Focchi





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L'innamoramento e gli equivoci della sopravvalutazione erotica

domenica 14 aprile 2013

La psicoanalisi e il problema della valutazione






Sunto degli argomenti presentati nel dibattito tenutosi alle Casa della Cultura a Milano, il 12 aprile 2013


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La psicoanalisi e il problema della valutazione

giovedì 14 marzo 2013

La cura attraverso il sintomo





 Conferenza tenuta a Vigo il 23 febbraio 2013 nell'ambito della ELP


Nell’ultimo insegnamento di Lacan, quello della decade degli anni settanta, si apre una prospettiva clinica completamente nuova per la psicoanalisi, e più ci addentriamo nel suo studio più vediamo l’importanza e la congruenza che riveste rispetto ai fenomeni della clinica contemporanea. Il seminario in cui questa prospettiva appare con maggiore evidenza è il XXIII, tenuto nel 1975-1976. Si tratta di un testo complesso, di cui è impossibile dare una sintesi. Il corso che Miller, nel 2004-2005, ha dedicato al commento di questo testo porta infatti il titolo Pièces detachés, pezzi staccati, che corrisponde in effetti sia al contenuto concettuale, sia alla forma espositiva rapsodica, discontinua di questo seminario. 
Per trovare tuttavia un filo conduttore, possiamo considerare che il seminario presenta lo sviluppo di un tema la cui prima apparizione si vede in RSI, seminario  tenuto l’anno precedente, nel 1974-1975, ed è il tema di fondo che percorre tutto l’ultimo insegnamento di Lacan, quello del nodo borromeo. Il particolare sviluppo che appare nel seminario XXIII consiste nella definizione di un nodo a quattro anelli, dove il quarto anello è rappresentato dal sintomo. Considerare il sintomo a partire dal nodo borromeo permette a Lacan di ridefinirlo completamente rispetto alla sua precedente concezione, che lo presentava come una metafora.
C’è un punto significativo in questo procedimento che mi sembra meriti attenzione, ed è che attraverso un argomento matematico come il nodo borromeo – che è un capitolo della topologia – Lacan produce una nuova visione della clinica psicoanalitica.
Credo sia importante nel seminario XXIII mettere soprattutto  l’accento sull’aspetto che riguarda la clinica, e bisognerebbe capire come la matematica può essere uno strumento per produrre concetti clinici.
È nota la prudenza che Miller ha sempre avuto nel trattare i punti d’appoggio matematici che Lacan ha via via introdotto e l’uso che ne ha fatto. Nel 1999 si è tenuto a Cerisy un convegno sul tema: Le réel en mathématiques. Miller, che era tra i relatori, ha parlato chiaramente del tentativo di formalizzazione dell’inconscio condotto fa Lacan come di un sogno, è stato anche il suo titolo: Un sogno di Lacan. Il sogno sarebbe quello di cogliere il reale dall’inconscio attraverso la formalizzazione, trattando l’inconscio come un oggetto, ed eludendone il tratto essenzialmente di soggetto.
A Buenos Aires, nel 2008, Miller è tornato sull’argomento del rapporto tra la formalizzazione e la clinica dicendo, nella relazione conclusiva del Congresso, che la logica non è la scienza del reale. Questa affermazione a suo tempo mi aveva fortemente colpito, perché è l’esatto contrario di quel che afferma Lacan, per esempio nell’Etourdit,  o nel seminario XXI Les non-dupes-errent, dove sostiene esplicitamente che la logica è la scienza del reale. La lettura di Miller è che Lacan abbia affermato questa tesi per poi rifiutarla. Si tratta naturalmente di un’interpretazione forte, che circoscrive e limita il ruolo della matematica nella clinica.
Occorre quindi una certa cautela nel trattare quel che a volte si chiama la matematica lacaniana. Considerate, per esempio, che nel corso Pièces detachés il nodo borromeo non è esplorato in modo matematico. Il commento di Miller è dedicato piuttosto alle conseguenze cliniche che si possono trarre dalla ricerca di Lacan in quegli anni.
Vedrei quindi il lavoro di oggi in questa prospettiva, in questo quadro  e con queste premesse che mi sembra debbano fare da riferimento  preliminare per entrare nel merito di un commento della sesta lezione del XXIII. 
La prima domanda da cui farsi guidare dunque è quale cambiamento nella pratica clinica introduca la svolta che porta Lacan dal riferimento al paradigma della linguistica al riferimento al paradigma della matematica.
L’altro punto d’orientamento che vorrei tenere presente e da cui farsi guidare riguarda il rapporto tra la topologia e il tempo. Sapete che questo  è il titolo che Lacan dà al suo penultimo seminario e che, possiamo dire, resta un titolo, perché non c’è, nel seminario, un vero e proprio sviluppo di questo tema. Già il titolo propone però un accostamento piuttosto insolito, perché nella matematica in genere non c’è posto per il tempo, le verità della matematica sono atemporali, come le sue operazioni. Cosa collega dunque la topologia e il tempo? Tutto quel che Lacan ne dice è una frase nella prima lezione, dove afferma che c’è una corrispondenza tra la topologia e la pratica, e questa corrispondenza è il tempo. Il motivo per cui  c’è questa corrispondenza è che la topologia – secondo quanto sostiene Lacan – resiste. Il tempo è quindi la durata che si instaura per via della resistenza della topologia. 
 In questi stringati accenni mi sembra significativo il fatto che si profili una concezione sostanziale del tempo, che mette un accento diverso rispetto a quello presente nel testo classico di Lacan sul tempo logico, dove è valorizzato il tempo per concludere, che ha un carattere istantaneo, quasi puntuale. Articolando la topologia e il tempo invece Lacan mette in risalto piuttosto quel che sarebbe il tempo per comprendere, visto come una durata indotta qui dalla resistenza della topologia. Da un lato il tempo potrebbe essere considerato come il lampo di comprensione che scioglie il nodo, dall’altro si tratta invece di capire come il nodo si fa. La considerazione della matematica come articolata con il tempo è comunque un modo insolito di trattamento della matematica, che ci dice, secondo me, come non si tratti di matematica applicata, ma piuttosto dell’esportazione di concetti matematici in un campo diverso, quello della clinica, con le trasformazioni che ne derivano. 
Consideriamo la prima fase dell’insegnamento di Lacan, che prende avvio con l’assioma fondamentale che l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Questo mette il linguaggio nella posizione determinante. Domandiamoci però perché Lacan, a partire dagli anni cinquanta, prenda il linguaggio come riferimento. In quegli anni, nello strutturalismo che sta crescendo come corrente di pensiero nella cultura francese, il linguaggio e la linguistica s’impongono come il paradigma a partire dal quale è possibile fondare una disciplina di carattere scientifico nel campo delle cosiddette scienze umane. C’è l’algoritmo di Saussure di significante e significato, ci sono gli sviluppi dati da Jakobson sui due fondamentali assi della metafora e della metonimia. Sono gli strumenti concettuali di cui Lacan si appropria in quel momento con lo scopo garantire una base scientifica rigorosa alla psicoanalisi. 
Non c’è dubbio in quegli anni che la psicoanalisi debba appartenere al campo della scienza. Freud stesso considerava che la psicoanalisi dovesse essere una scienza e dovesse avere come base la neurofisiologia come stava emergendo nella sua epoca. Uno dei suoi maestri era Wilhelm Brücke, che aveva studiato a Berlino e aveva assorbito le tendenze antivitalistiche che si espressero nella Società di Fisica, la Physicalische Gesellschaft da lui fondata insieme a Emil Du Bois-Reymond e a Hermann von Helmholz. Aderire alla fisiologia antivitalistica significava ricondurre tutte le manifestazioni vitali all’azione di forze chimico-fisiche, sostenendo la necessità di applicare alla neurofisiologia gli stessi principi della fisica.
Per Lacan il riferimento alla scienza non si in questi termini meramente riduzionisti, ma ricorre per l’appunto ai paradigmi concettuali dello strutturalismo, che vuole si una scienza formale rigorosa, ma non in termini riduzionisti.
Che cosa significa lo strutturalismo? Entrare in una prospettiva strutturalista all’epoca significa per Lacan innanzitutto stabilire la priorità dell’ordine simbolico rispetto al piano immaginario e a quello reale.
Non solo il simbolico viene prima rispetto all’immaginario e al reale ma è anche ad essi irriducibile. Questo vuol dire che il simbolico è autonomo, che c’è un’autonomia del simbolico. Abbiamo in questa idea una parola d’ordine fondamentale dello strutturalismo, che Lacan fa sua. Cosa significa? Significa che il simbolico può essere studiato di per sé,  nelle sue relazioni interne e nelle strutture combinatorie che il linguaggio offre attraverso gli assi della metafora e della metonimia.
Gli elementi della struttura – su questo Levi-Strauss è inequivocabile – non hanno nessun significato estrinseco rispetto alla struttura, non hanno una designazione esterna, hanno solo un senso relativo alla posizione. Il valore degli elementi della struttura è prettamente locale, e relativo alle  intrinseche possibilità combinatorie.
Altro punto qualificante, nella prospettiva che vuole prendere Lacan, è che l’autonomia del simbolico permette di sganciarsi da qualsiasi debito nei confronti dell’intuizione, ed è questo un passo determinante per costituire la psicoanalisi come scienza. È un punto che Lacan manterrà anche nella seconda pare del suo insegnamento. L’indipendenza dall’intuizione è il punto di partenza necessario per costituire una scienza in quanto tale.
Va in questo senso la critica a Melanie Klein, sviluppata nei primi seminari, finalizzata a staccare il simbolico come struttura dalle analogie immaginarie del repertorio kleiniano attinto dalle fantasie inconsce.
Essendoci un’autonomia del simbolico e non essendoci una denominazione esterna al linguaggio, la struttura con cui Lacan formalizza il linguaggio non due elementi di natura distinta, uno che sarebbe il significante, e l’altro che sarebbe il significato. Ci sono solo significanti e relazioni tra i significanti, e il significato si produce come effetto delle relazioni tra i significanti.
È quel che si può scrivere:
  
S1   S2
     s

 Mettendo in relazione tra loro due significanti si ottiene un effetto di significato. Il significato dipende dunque dalla variabile S2 e da essa deriva anche l’effetto di variazione del significato.
  Il significato non corrisponde dunque a nessun elemento concreto, è solo una mancanza che può assumere nei diversi casi diversi valori e che possiamo scrivere così: 

S1  S2
   $                                       
                                         

     Sappiamo che $ abitualmente rappresenta per Lacan il soggetto, che consiste evidentemente in una cancellazione.
     L’articolazione tra S1 e S2 s’impernia dunque su una mancanza, la cui posizione varia nelle diverse possibili combinatorie.
    Da questa  prospettiva, dobbiamo dire che la cura psicoanalitica ha raggiunto il proprio obiettivo quando la mancanza è andata al proprio posto, il che vuol dire quando da parte del soggetto c’è un riconoscimento della castrazione. Lacan mantiene tale concezione – che è esposta in modo molto chiaro nel seminario VIII su La traslazione – fino agli anni sessanta.
Il linguaggio, dal punto di vista strutturalista, è così una combinatoria di posizioni e di sostituzioni che nell’esperienza psicoanalitica si tratta di riarticolare, e quando si esauriscono le possibilità combinatorie, quando  non è possibile fare un’ulteriore sostituzione, quando non ci sono altri rimandi, si incontra allora la mancanza e, per così dire, il gioco è finito. 
Cosa tiene insieme la struttura? Qual è la sua chiave di volta? La risposta si trova nell’Edipo, e Lacan lo riformula in termini di relazioni significanti, riscrivendo in termini formalizzati quel che Freud espone in modo empirico e narrativo. Otteniamo allora la struttura della metafora paterna, dove in Nome del Padre (NdP) si sostituisce al Desiderio della Madre (DM), di carattere enigmatico (x), dando luogo al significato fallico.

   NdP   DM   –––––>     NdP
   DM      x                     (fallo)

Con questo il Nome del Padre viene caratterizzato con la funzione di definire la norma del desiderio, e costituisce una linea guida per l’esperienza clinica, che deve portare il soggetto a riconoscere la castrazione, introducendolo al proprio desiderio. L’Edipo ha dunque una funzione essenzialmente normativa.
Negli anni ottanta Miller ha generalizzato la funzione di sostituzione implicita nella metafora paterna, mettendo l’accento sul godimento piuttosto che sul desiderio, e trasformandola nella formula in base alla quale l’acquisizione del linguaggio in quanto tale implica una perdita di godimento. Se consideriamo allora il linguaggio come l’Altro, siglato A, e il godimento siglato G, possiamo scrivere :

 A      
 G

Questo vuol dire che qualsiasi significante può svolgere la funzione del Nome del Padre e sostituirsi al godimento, provocando la mancanza che si inscrive nell’economia soggettiva come desiderio.
In altri termini: parlare vuol dire rinunciare al godimento, vuol dire sostituire il godimento con dei significanti. L’operazione lascia un resto, siglato con la lettera “a”, ma questa concezione implica comunque una clinica del senso, incentrata sull’interpretazione. Si tratta di giungere al senso della castrazione attraverso un certo numero di sostituzioni: interpretare significa operare in una logica di sostituzioni.
La clinica della fase strutturalista di Lacan si fonda su queste premesse, avendo come riferimento paradigmatico la linguistica. A un certo punto però le cose cambiano, e il riferimento principale di Lacan diventa la matematica, mentre la linguistica va in secondo piano.
Possiamo datare questo passaggio all’incirca con il seminario su L’identificazione, del 1961-1962, che introduce in modo massiccio l’uso della topologia.
Perché avviene questo spostamento? Cosa è successo? È successo che Lacan, a partire dal seminario su L’etica della psicoanalisi, tenuto nel 1959-1960, ha cominciato a delineare una forma di godimento che non è residua, come quella siglata con “a” minuscola, che non è un resto dell’operazione linguistica, che è irrelata dal linguaggio e che, in questa fase, ha il nome freudiano di das Ding, la Cosa.
Interessante è il fatto che il das Ding non viene lavorato attraverso l’algoritmo:

 A
   G

Non è quindi una forma di godimento su cui sia possibile intervenire con i meccanismi combinatori di posizione e di sostituzione del linguaggio in senso strutturale.
Il fatto che das Ding non passi per l’algoritmo che sostituisce il significante al godimento significa tra l’altro che non passa per l’Edipo. 
Si rende quindi necessaria una prospettiva al di là dell’Edipo, che Lacan metterà a punto alcuni anni dopo, nel seminario Il rovescio della psicoanalisi.
Cosa implichi l’Edipo all’interno della struttura del linguaggio è stato spiegato chiaramente da Miller quando ha chiarito che per Lacan il Nome del Padre funziona come una sorta di Altro dell’Altro, cioè come una sorta di metalinguaggio.
Occorre a questo punto notare la sequenza in cui si succedono questi temi: non c’è Altro dell’Altro è un’idea che compare nel seminario Il desiderio e la sua interpretazione del 1958-1959, mentre il seminario su L’etica della psicoanalisi è tenuto l’anno seguente.
È come se l’idea che non c’è metalinguaggio facesse apparire, o rendesse possibile vedere il problema del reale come alterità radicale rispetto al linguaggio.
Cos’è, in effetti, la topologia su cui Lacan tanto di è diffuso? Potremmo dire, in un certo senso, che è una geometria senza metalinguaggio. Vediamo in che senso. 
Per definire una semplice superficie curva in uno spazio cartesiano possiamo dare le coordinate di ciascuno dei suoi punti e otteniamo il suo “indirizzo” preciso, sappiamo dove è situata. È necessario a questo scopo presupporre uno spazio assoluto in cui la superficie è immersa.
Nel XIX secolo Carl Friedrich Gauss, usando il calcolo differenziale, riuscì a risolvere il problema di definire una linea curva solo in base a proprietà interne alla curva stessa, senza ricorso allo spazio assoluto.
Il calcolo differenziale serve per definire il tasso di variazione di una quantità relativamente a un’altra. Si può per esempio applicare alle variazioni di velocità o alle variazioni di una curvatura.
Le variazioni di curvatura di una linea sono assimilabili a variazioni di velocità e quindi in ogni punto la curva può essere definita in base alle sue caratteristiche intrinseche.
Bernhard Riemann, che prese la cattedra di Gauss, risolse lo stesso problema di definire una figura attraverso le sue proprietà intrinseche non per tre, ma per n dimensioni. A questo punto si fa strada il concetto che una superficie non sia tanto immersa nello spazio ma sia essa stessa spazio. Sono così poste le basi per la topologia, che si chiamava allora Analysus situs, titolo di un lavoro di Henri Poincaré pubblicato nel 1895 che mette definitivamente le basi per la topologia algebrica.
Possiamo allora dire, facendo delle analogie esemplificative, che lo spazio euclideo, definito dalle coordinate cartesiane tridimensionali è un po’ come l’Edipo nella pratica clinica: una sorta di metalinguaggio in cui le figure oggetto sono immerse. Il passaggio di Lacan dal riferimento alla linguistica al riferimento alla topologia viene immediatamente dopo la constatazione che non c’è metalinguaggio, e precede di pochi anni il momento in cui sviluppa la prospettiva al di là dell’Edipo. Questo porta necessariamente a una importante ridefinizione della pratica clinica, perché con queste diverse promesse, non si può più operare soltanto con gli stessi mezzi di prima. Si verificano dunque le condizioni che porteranno Lacan alla grande riformulazione della clinica che produce quella che oggi chiamiamo abitualmente clinica borromea, formulata nell’ultima parte del suo insegnamento con l’introduzione del nodo.
Lo sviluppo maggiore sul tema del nodo inizia con il seminario RSI. Quel che è universalmente noto nel nostro ambiente è che il nodo ha la proprietà di unire tre anelli che altrimenti sarebbero sciolti.
L’altra cosa universalmente accettata è che il nodo borromeo produce una degerarchizzazione dei tre registri simbolico, immaginario e reale: la priorità e l’autonomia del simbolico che caratterizzano l’interpretazione strutturalista del linguaggio, fatta propria inizialmente da Lacan, viene meno quando i tre registri vengono messi in posizione di equivalenza nel nodo. Da questo punto di vista il nodo rappresenta una rottura netta con la fase precedente. C’è tuttavia un aspetto di continuità: con il nodo è ribadito il passo iniziale dell’insegnamento di Lacan: non c’è nessuna possibilità di capire qualsivoglia fenomeno umano se non si passa per la tripartizione di simbolico, immaginario e reale. Questo è l’aspetto più saldo di tutto l’insegnamento di Lacan. Adesso però, con il nodo, diversamente da prima, i tre registri sono irrelati, sono pezzi staccati, e hanno un senso completamente diverso.
Il tema centrale di Lacan è la non relazione, il disannodamento del nodo. Questo aspetto è presente sin dall’inizio, tanto che già in RSI, Lacan si pone il problema di un quarto termine necessario da aggiungere ai tre anelli di base, e siccome RSI si sviluppa in un confronto serrato con Freud, il primo candidato a funzionare come quarto elemento è la realtà psichica. Freud – sostiene Lacan – ha inventato qualcosa che si chiama realtà psichica, che può essere un quarto termine in grado di annodare simbolico, immaginario e reale.
Perché la realtà psichica dovrebbe tenere insieme questi tre registri? Non è evidente, e Lacan non la spiega. Inoltre, Freud non ha mai parlato di simbolico, immaginario e reale, e la realtà psichica l’ha concepita per ragioni completamente diverse, per controbilanciare il peso della realtà materiale e per spiegare perché per il nevrotico, e a maggior ragione per lo psicotico, il confronto con la realtà esterna non può mai funzionare per smentire le sue fantasie. Impossibile, per esempio, contraddire un delirio erotomane. Se diciamo a una donna in pieno delirio erotomane che quel che considera il suo irrefrenabile innamorato non le presta la minima attenzione, risponderà che è ovvio: è talmente cotto di lei che non riesce neppure a guardarla. La certezza delirante prevale sulla realtà materiale, e sa sempre trovare gli argomenti logici per sostenerla.
In ultima istanza, la realtà psichica è un nucleo di certezza. È più evidente nello psicotico, ma presente anche nella nevrosi, quando prevalgono fantasie che non si possono ricondurre al senso comune.
Teniamo dunque presente questo punto: ci vuole qualcosa di più solido e di più determinante della realtà materiale per tenere insieme il simbolico, l’immaginario e il reale.
Lacan aggiunge anche, in un diverso passaggio dello stesso seminario, che ci vogliono non tre, ma quattro consistenze per far tenere insieme i tre registri, perché – sostiene – quel che ha precedentemente chiamato realtà psichica ha un nome, ed è complesso d’Edipo.
Avevamo considerato prima Lacan in uno prospettiva al di là dell’Edipo, dopo Il rovescio della psicoanalisi, e ritroviamo l’Edipo nel suo ultimo insegnamento. Anche qui però dobbiamo notare che tutto è cambiato. Non è più l’Edipo strutturalista, che da consistenza al simbolico e introduce alla norma del desiderio. Al tempo stesso tuttavia, sempre nello stesso seminario, Lacan sostiene che l’Edipo è da rigettare, e avanza l’equivalenza tra Nome del Padre e realtà psichica.
Come vedete, sono passaggi che messi uno accanto all’altro sono difficili da interpretare, che indicano come Lacan stia cercando, segue pensieri in evoluzione i quali si stabilizzano nell’idea che domina poi il seminario XXIII dove il quarto anello è definito come il sintomo. Anche qui tuttavia, come in molti altri punti, il nome resta uguale ma il concetto cambia. Il sintomo così non è più una metafora il cui significato è rimosso, dove il problema è di interpretare per ridurlo, eliminarlo, ma è ciò che appare indispensabile per tenere insieme i pezzi staccati.
Le operazioni della clinica sono allora completamente trasformate. Nella fase precedente, per esempio, Lacan metteva l’accento sul taglio come struttura soggettiva e come punteggiatura del discorso, in grado di farne emergere un altro senso. È un aspetto posto particolarmente in evidenza in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, come si può leggere in un passaggio che troviamo a p. 801: “Dobbiamo ricondurre tutto alla funzione di taglio nel discorso, e il più forte è quello che costituisce una barra tra il significante e il significato. Il discorso, nella seduta analitica vale solo nella misura in cui inciampa e s’interrompe. Solo questo taglio della catena significante verifica la struttura del soggetto come discontinuità del reale”.
Questo modo di operare è esattamente il contrario di quel che Lacan propone nel seminario XXIII dove, in particolare nella quarta lezione, dice che se non c’è Altro dell’Altro occorre fare tuttavia da qualche parte una sutura tra il simbolico e l’immaginario – che significa tra l’inconscio e il corpo – occorre realizzare un raccordo, un’incordonatura tra simbolico e reale – ovvero tra inconscio e pulsione. Il termine “incordonatura”, in francese “epissure” usato qui da Lacan è un termine propriamente marinaio, che indica il modo in cui, ai due capi di una corda, si sciolgono le fibre che la compongono per riattorcigliare quelle di un capo con quelle dell’altro formando una continuità, oppure. 
L’idea è che in qualche modo portiamo l’analizzante a incordonare il sintomo con il reale parassita del godimento perché possa attingere a questo godimento. Detto in altro modo, si tratta di rendere possibile al soggetto consentire al proprio godimento. 
Mentre il taglio è un’operazione sul significante, un’interpretazione realizzata senza riferirsi a codici metalinguistici, l’incordonatura è un’operazione che agisce sulla pulsione, sul modo di godimento. Il taglio fa da punteggiatura nel discorso del soggetto per farne sorgere il senso, le suture, i raccordi, le incordonature, sono riparazioni realizzate per eliminare il sintomo, ma per utilizzarlo.
La riparazione è il tema centrale della sesta lezione del seminario XXIII. Il punto di partenza della riflessione di Lacan è la constatazione che nel nodo può esserci un errore, e che questo errore può essere rimediato con l’aggiunta di un anello. 
Quando c’è un errore nella catena borromea, gli anelli sono liberi, quando c’è un errore nel nodo, il nodo si riduce a cerchio.





















Può essere utile, per gli sviluppi che dovremo considerare, vedere che il nodo a trifoglio mostrato sopra, quando è annodato correttamente può  apparire anche in questa forma:









Quando presenta un errore di annodamento si presenta invece così:










Lacan prende due esempi: un nodo con quattro incroci, detto nodo di Listing, dal nome di Johann Benedict Listing, che fu un allievo di Gauss, 






e un nodo con cinque incroci, che Lacan battezza con il proprio nome. 
















Il nodo a cinque incroci serve per esemplificare come ci possano essere diversi modi di sbagliare annodamento. In alcuni incroci l’errore fa sì che il nodo si disfi, in altri invece il nodo si mantiene, riducendosi però da un nodo a cinque a uno a tre incroci.
Il nodo a cinque incroci serve dunque a Lacan per mostrare che gli errori d’annodamento non sono indifferenti allo specifico punto d’incrocio in cui si producono, e per indicare che hanno effetti diversi sul nodo. 
Lacan riprende nel nodo a tre l’idea che non è la stessa cosa riparare l’errore dove si produce e ripararlo in uno degli altri due punti d’incrocio. Qual’è quindi il percorso didattico di Lacan su questo aspetto? Mostrare che se si produce un errore in un nodo superiore, quello a cinque, non è grave perché la qualità nodale, pur ridotta, si mantiene. Se si produce invece un errore nel nodo a tre, tutto si disfa.
Ritroviamo la stessa eterogeneità rispetto al punto di riparazione quando si tratta di correggere l’errore nel nodo a trifoglio, quando si aggiunge in esso un anello per garantirne una tenuta.
Qual è in questo caso la differenza? Nel caso in cui l’anello sia inserito in un punto diverso da quello in cui si è prodotto l’errore si ha equivalenza tra i due anelli della struttura risultante. 








Nel caso in cui l’anello sia inserito nel punto stesso in cui si è prodotto l’errore, questa equivalenza non sussiste.











La differenza sta quindi nell’equivalenza o meno tra i due anelli a cui si riduce il nodo riparato, dove un anello è quello che è stato aggiunto, e l’altro è quello che si sarebbe ridotto a cerchio se non ci fosse stata l’aggiunta. 
Considerando ora il piano della struttura soggettiva il problema ora è: che cosa abbiamo da aggiungere ai tre registri del simbolico, immaginario e reale in gioco nell’esperienza umana, quando l’annodamento non funziona? Di fatto, dobbiamo dire che nell’esperienza umana è strutturale  che qualcosa fallisca, che l’istinto deragli per via del linguaggio, che l’incontro con il linguaggio rivesta un carattere traumatico in quanto tale, e  questo è il motivo per cui l’annodamento non si realizza. Sempre bisogna aggiungere qualcosa perché il nodo tenga, e questo qualcosa è il sintomo. Il sintomo diventa così una componente essenziale dell’esperienza umana. Capite allora che c’è da questo punto di vista un totale ribaltamento della prospettiva clinica: prima bisognava interpretare i sintomi per risolverli de eliminarli, ora i sintomi sono un fattore di riparazione, e quando non ci sono vuol dire che va molto male, che il soggetto non è messo bene, bisogna cercare qualcosa che supplisca.
Per quanto riguarda la riparazione abbiamo visto che ci possono essere due modi. E qui viene in punto cruciale, il centro critico di tutta questa lezione. Le presentazioni del nodo a quattro e a cinque incroci erano in fondo, piuttosto didattiche, ma a questo punto viene il concetto, il passaggio fondamentale che introduce qualcosa di nuovo nella prospettiva psicoanalitica. Lacan dice a questo punto che se c’è equivalenza tra i due anelli, come si verifica quando il nodo è corretto nel punto sbagliato, non c’è rapporto sessuale. Se le posizioni dei due anelli sono scambiabili, sostituibili una all’altra, non c’è rapporto sessuale. Potremmo forse dire in questo caso che c’è rapporto di parola, c’è rapporto tra soggetto e Altro, ma non c’è rapporto sessuale.
Cosa significa dire che se c’è equivalenza non c’è rapporto sessuale? Non sembra un enunciato di per sé evidente, ma Lacan non lo spiega ulteriormente. Per darcene una ragione prendiamo il caso in cui c’è rapporto sessuale. È il caso dell’animale che, diversamente dall’uomo,  è guidato dal sicuro binario dell’istinto verso il partner dell’accoppiamento. In questo caso c’è equivalenza, le posizioni dei due partner sono scambiabili come i due anelli del nodo, oppure no? Gli etologi hanno mostrato che i comportamenti di corteggiamento sono sequenze rigidamente codificate all’interno di ogni specie. Per esempio nello spinarello, che fa una complessa danza zig-zag, a ogni movimento del maschio corrisponde una precisa risposta della femmina, e non è possibile sostituire la femmina dello spinarello con una femmina di specie simile e vicine, come una carpa, perché la sequenza presto s’interrompe. E non è neppure possibile scambiare le posizioni del maschio e della femmina, perché producono due sequenze dissimmetriche. Nell’uomo le cose sono molto diverse. Solitamente è il maschio che corteggia la femmina, ma se le cose vanno a rovescio non si blocca nulla, non necessariamente. Nell’animale dunque, dove c’è rapporto sessuale, non c’è equivalenza, e questo ci permette di capire l’enunciato inverso, quello di Lacan, per cui se c’è equivalenza non c’è rapporto sessuale.
La relazione sessuale, non essendoci equivalenza passa invece attraverso il sintomo. Il sintomo è l’anello aggiunto al posto giusto, e le trasformazioni del nodo mostrano chiaramente che i due anelli non sono equivalenti, non possono indifferentemente prendere uno il posto dell’altro come nell’altra struttura.
Perché la relazione sessuale passa per il sintomo? Perché passa per il godimento: passa per il godimento del corpo e il godimento della lingua.
È qui che Lacan la sua stupefacente affermazione che una donna è un sintomo per l’uomo e che l’uomo per una donna è anche qualcosa di peggio, è una devastazione.
Che una donna sia un sintomo per un uomo può non apparire immediatamente evidente ma, se consideriamo la nuova concezione di sintomo che si fa luce qui, l’idea appare invece subito chiara. Qual è la posizione della donna nella teoria classica? Quella di oggetto del desiderio maschile. Proprio perché una donna incarna l’agalma dell’uomo, diventa desiderabile. Andando a coincidere con la posizione di oggetto del fantasma di un uomo, una donna diventa oggetto del  suo desiderio. La seduzione femminile passa attraverso la capacità della donna di farsi segno dell’oggetto che all’uomo manca. E cos’è il sintomo, quando non lo consideriamo più semplicemente un elemento disfunzionale da eliminare? È un segno di godimento, ed è diventando questo segno che una donna diventa partner del desiderio di un uomo.
Consideriamo lo sviluppo che di questo tema ha dato Miller: generalizzando la prospettiva di Lacan ne ha ricavato la teoria del partner-sintomo. Il sintomo, dice Miller nel suo corso del 1997-1998 intitolato per l’appunto Il partner-sintomo, è ciò che sta in una coppia, che non deve necessariamente essere eterosessuale. Il sintomo sta tra uomo e donna, ma anche tra donna e donna e tra uomo e uomo.
Bisogna notare che il corso Il partner-sintomo viene subito dopo quello su L’Altro che non esiste e i suoi comitati etici, corso in cui Miller decostruisce la consistenza dell’Altro e, alla coppia interlinguistica tra Soggetto e Altro, che si fonda sul riconoscimento, sostituisce la relazione tra il parlessere e il partner-sintomo.
È uno sviluppo che tiene conto della nuova assiomatica di Lacan presente a partire dal seminario Encore. Non parte più, in questo seminario, dall’Altro considerato come preesistente, ma dall’Uno del godimento, e si pone così l’interrogativo su cosa spinga il soggetto a uscire dall’autismo del godimento per aprirsi all’Altro.
 Nella lettura di Miller l’Altro, inconsistente, inesistente e senza più ormai una posizione preliminarmente attribuita, viene surrogato dal partner-sintomo. Può sembrare astratto ma è il tema contemporaneo che si presenta con maggiore spicco nei problemi di coppia. Sempre più ci si rivolge allo psicoanalista per qualche problema di coppia, qualunque sia ili tipo di coppia. Al tempo di Freud poteva verificarsi che un padre portasse la figlia a fare una “revisione”, per così dire, da uno psicoanalista, come era stato nel caso di Dora o della giovane omosessuale. Oggi, con sempre maggior frequenza, è piuttosto un coniuge, uomo o donna che sia, a portare il partner dallo psicoanalista perché c’è qualcosa che non va.
Una volta mi è successo anche di essere consultato da una donna perché  era la sorella che non andava, perché in quel caso il partner sintomatico era la sorella. Infatti fu la donna stessa a intraprendere poi, con profitto, un’analisi. 
La teoria del partner-sintomo può abbracciare un’estensione molto ampia e, in fondo, nel modo più generale possiamo dire che riguarda la differenza tra il sintomo intersoggettivo e il sintomo intrasoggettivo.
Il sintomo è sentito come estraneità, come disfunzionale – noi sappiamo che è invece funzionale, ma occorre un percorso di analisi perché anche il soggetto se ne possa rendere conto – e quel che appare disfunzionale può essere una parte di sé che non si integra nell’io, o può essere un altro che incarna esteriormente il sintomo, ed è questo il motivo per cui lo si porta dall’analista, perché venga “riparato”.
Nell’equivalenza che Lacan mette in correlazione con il non rapporto sessuale, quel che manca è la forma di eterogeneità che riconosciamo nel sintomo, manca la dimensione di un’alterità radicale, quella che Lacan chiama l’Altro sesso.
La possibilità di una relazione sessuale passa per il sintomo e per il godimento tenendo conto che l’uomo e la donna hanno una relazione completamente diversa con il sesso.
In un primo momento, Lacan aveva sottolineato questa differenza, parlando della specifica relazione che ogni sesso intrattiene con il fallo.
Anche questo è un modo di dire che non c’è rapporto sessuale. Ognuno dei due sessi è come appartato nella propria relazione con il fallo e Lacan ne trae le conseguenze che troviamo scritte nelle formule della sessuazione, dove il rapporto con il fallo di ciascuno dei due sessi è messo in forma logica.
Questo significa anche, ed è un tema che è stato ampiamente sviluppato nel Campo freudiano, che ogni sesso ha un suo particolare partner, nel sintomo o nella devastazione. Dal lato maschile, che si sostiene sulla contabilità del godimento fallico, il partner è l’oggetto “a” minuscola. Dal lato femminile, che si sostiene sull’amore, occorrono le parole, e sono parole che non bastano mai. C’è un aspetto che tocca l’infinito dal lato femminile, e proprio perché le parole non bastano mail il partner-sintomo ha la forma di significante della mancanza dell’Altro. Ho seguito una volta in analisi una donna che, come molte donne oggi, cercava un incontro attraverso le chat line. Era entrata a un certo punto in contatto con una persona che le scriveva frasi che la facevano sognare, un artista della parola, e dopo breve tempo mostrava in modo inconfondibile tutti i segni dell’innamoramento: era dimagrita, era diventata più bella, più curata, non riusciva a concentrarsi sulle cose di tutti i giorni. Non aveva mai visto l’uomo all’altro capo del filo, aveva solo le sue parole, ma si era innamorata delle parole. Nel femminile c’è questa straordinaria possibilità: una donna può innamorarsi delle parole.
Il partner-sintomo dell’uomo ha la forma del feticcio, e a un uomo piacciono cose che per una donna a volte è difficile capire o che non sempre è disposta a condividere. Un uomo si interessa alle calze di nylon, alle scarpe con il tacco, a tutto un repertorio che una donna può considerare semplicemente pornografico.
Per le donne il desiderio ha invece la forma dell’erotomania, che esprime il bisogno di essere amata, il bisogno che le venga fatta sentire la propria unicità attraverso le parole, che sono parole d’amore. C’è in questo un circuito che passa per il carattere infinito della domanda d’amore, c’è: “Dimmi che mi ami” quel bisogno ininterrotto di parlare che gli uomini non sempre capiscono e da cui a volte si sentono disturbati e di cui non riescono a darsi ragione. Deve essere un problema che turba anche la scienza perché recentemente un’equipe di ricercatori ritiene di aver scoperto le ragioni genetiche per cui le donne sono così versate nella parola. Il godimento maschile può invece essere benissimo silenzioso, è perfettamente compatibile con il silenzio.
Vorrei concludere con poche brevi osservazioni sul caso clinico di un uomo che per anni, per motivi legati alla sua difficilissima storia infantile, trova una compensazione nella relazione con la moglie, con la quale c’è una perfetta intesa, salvo il fatto che non c’è sesso. Dopo una quindicina d’anni di matrimonio lei si rende conto di essere omosessuale. I due si separano e lui comincia a intrattenere relazioni fortemente erotizzate con le donne con le quali le cose però non riescono a continuare. Si accorge infatti che se non ci sono contrasti, ostacoli da superare – che evidentemente nel tempo del matrimonio erano rappresentati dalla difficoltà di avere relazioni sessuali con la moglie – la cosa lo annoia. La donna con cui riesce ad avere un legame più durevole è quella con cui la relazione che intrattiene è ben espressa in un sogno. Sta guidando in autostrada contromano, c’è un forte temporale, i vetri sono appannati, lui  chiede alla donna, che gli è accanto, di aiutarlo a pulire i vetri, ma lei non lo fa. Con questa donna la situazione è esattamente il rovescio che con la moglie: c’è una forte intesa sul piano erotico, ma è impossibile parlarsi senza litigare o entrare in un vortice di reciproche provocazioni.
Mi sembra che questo caso illustri molto bene le due situazioni presentate da Lacan con il nodo dove la correzione è fatta nel punto sbagliato e dove invece è fatta nel punto stesso in cui l’errore si è prodotto. La relazione con la moglie infatti compensava il fallimento   nelle relazioni che si era configurato nella sua vita infantile, ma la correzione non avveniva nel punto stesso dello scacco, che riguardava il rapporto con la madre. La moglie compensava questo scacco, ma era una donna completamente diversa, presa da un altro mondo. Per questo si trovavano in una posizione di equivalenza senza poter interagire sessualmente. Il fatto che la moglie fosse omosessuale è solo un dato aggiuntivo e non necessario rispetto a un’impossibilità altrimenti costituita. Con l’altra donna non c’era una elusione dell’errore, perché le cose erano riprese nello stesso punto in cui non andavano con la madre, ed era per questo la donna giusta sul piano erotico, anche se sbagliata per tutto il resto. D’altra parte, come si dice nel finale di un famoso film di Billy Wilder, nessuno è perfetto.

Marco Focchi