lunedì 12 dicembre 2011

Esiste un setting lacaniano?

















Intervento alla tavola rotonda tenutasi a Milano alla Casa della Cultura il 16 novembre 2011 in occasione del trentennale di Lacan, con la partecipazione di Alessandro Bertoloni, Ferruccui Capelli, Marisa Fiumanò, Marco Focchi, Marcello Morale, Rocco Ronchi, Paolo Scarano, Silvia Vegetti Finzi


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Esiste un setting lacaniano?

mercoledì 23 novembre 2011

mercoledì 26 ottobre 2011

La via della psicoanalisi verso la politica






Riceviamo dal filosofo Riccardo Fanciullacci, e volentieri pubblichiamo queste osservazioni in margine al Forum della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi: “La psicoanalisi di fronte alle angosce della civiltà: crisi economica, politica, spirituale” (Milano 22 ottobre 2011).


0. Pur non essendo iscritto alla SLP, quando sono venuto a sapere del progetto di un forum inteso ad aprire uno spazio di confronto tra gli analisti lacaniani e altri studiosi e studiose, sui temi difficili del presente, cioè su quelli che più pressantemente fanno sentire il bisogno di un’articolazione teorica non affrettata, bensì radicale, che sia alla loro altezza, ebbene, quando ho saputo di questo, mi sono precipitosamente organizzato per essere presente. La sequenza variegata degli interventi mi ha suscitato delle considerazioni che avrei voluto proporre nel dibattito, poiché però questo ha di fatto avuto tempi abbastanza ridotti, le propongo qui.
1. Nel suo intervento di apertura, Paola Francesconi ha sottolineato e ribadito che “tra pulsione e oggetto non c’è corrispondenza”, bensì “uno spazio vuoto che chiede un’invenzione singolare”, questa invenzione singolare sarebbe l’avvenire o l’accadere del soggetto, soggetto che è dunque dell’ordine degli eventi e non delle sostanze.
2. Ora, questo spazio, che è aperto in quanto non vi è una regolazione naturale del rapporto tra pulsione e oggetto, è anche lo spazio in cui è all’opera quella regolazione compiuta dalle istituzioni, di cui parla Freud (Freud, ne Il disagio della civiltà, parla delle «istituzioni che regolano», dice che regolano i rapporti tra gli uomini, cioè, potremmo dire, che regolano il “non rapporto sessuale”, ma appunto, tra il “non rappoto” e la “non corrispondenza pulsione/oggetto” c’è un nesso). [Questo, tra l’altro, prova che la Kultur non è data solo dalla scienza e dalla tecnica impegnate nel compito di dominare la natura, come ha invece scritto Paolo D’Alessandro, nell’abstract del suo intervento – lo rimarco perché l’accezione profonda, freudiana, di Kultur ci servirà tra poco].
3. Nella pagina citata, Freud parla dell’inadeguatezza di quella regolazione operata dalla istituzioni. È un’inadeguatezza strutturale e rimarcala significa rimarcare il fatto che le istituzioni non sollevano il singolo dal compito di quell’invenzione singolare di cui s’è detto (il saperci fare ecc.).
4. È vero dunque che né la natura, né le istituzioni (la Kultur) regolano la relazione pulsione/oggetto adeguatamente, cioè fino a renderla una corrispondenza, fino a renderla qualcosa che va da sé senza bisogno di un saperci fare inventato dal singolo. C’è questo tratto di identità tra natura e Kultur. Nel rimarcare questo tratto di identità, però, credo non si debba perdere di vista l’opportunità offerta dalla scansione.
5. L’opportunità da riconoscere è questa: il problema che ha ciascuno di inventarsi una sua soluzione singolare non riassorbe o risolve in sé il problema dell’invenzione-tessitura di nuove forme socio-simboliche di messa in ordine – anche se sappiamo che tale messa in ordine non potrà comunque mai sollevare i singoli dal loro compito singolare. Detto altrimenti: se è vero che non c’è regolazione istituzionale che solleva il singolo dalla sua responsabilità, è altrettanto vero che il ruolo della mai-adeguata-regolazione istituzionale non può essere preso in carico solo dalla molteplicità dispersa delle invenzioni singolari.
6. Mi sembra, non solo a partire dagli interventi SLP al Forum, ma certo anche da questi interventi, che la SLP sia eccellente nel far vedere i modi attuali secondo cui la Kultur a noi contemporanea sia inadeguata a regolare il non rapporto e la non corrispondenza, cioè sia eccellente a far vedere come si configura oggi il modo in cui la Kultur produce disagio, ma che invece pecchi (anche gravemente) quando si tratta di
elaborare quello specifico agire e pensare che consiste nel situarsi al livello in cui stanno le forme socio-simboliche di regolazione e nel dare avvio alla tessitura di nuove forme. Questo agire e pensare che si mette al livello della regolazione socio-simbolica e si estrinseca nella tessitura di nuove forme, questo agire e pensare su cui mi pare pecchi la SLP, io lo chiamo politica.
7. Come è chiaro, con questo ragionamento sto cercando di interrogare il modo in cui il sapere psicoanalitico può avere un potenziale politico, cioè trasformativo di quella regolazione socio-simbolica di cui parlava anche Freud.
8. Questo ragionamento, mi sono sforzato di formularlo usando significanti già introdotti da altri, durante il Forum. Devo però aggiungere che questa accezione di politica, sebbene abbia una storia antica e autorevole, non è quella che circola sui media. Questa seconda può essere intesa come una violenta restrizione del significato della prima: in questa seconda accezione, le “istituzioni della Kultur che operano regolazioni” sono solo le istituzioni politiche che operano attraverso leggi e atti di governo e l’unico modo di situarsi al loro livello è quello di seguire la procedura elettorale (o referendaria o al massimo facendo una protesta in piazza). Si tratta di un senso molto impoverito. La politica nell’accezione che ho nominato (punto 6) è invece qualunque ricontrattazione sulle forme dell’agire che regolano il rapporto umano agli altri, al proprio desiderio e al mondo. Per intenderci, queste forme includono anche “le maniere” tanto amate da Lacan e Miller. Il punto è: queste forme non sono mai puramente delle invenzioni singolari. Piuttosto, vi sono tipologie di forme che consentono e fanno spazio ad invenzioni singolari (ad esempio appunto, le maniere), ma non sono mai la semplice somma di invenzioni singolari – d’altro canto, il linguaggio delle maniere (che troviamo rappresentato nei romanzi) è un linguaggio e quindi sta in posizione di terzo rispetto ai singoli.
9. Che cosa significa situarsi al livello di tali forme d’ordine e modalità di regolazione e operare trasformativamente su tale livello? Questa è una delle domande su cui credevo si sarebbe discusso nel Forum. E lo credeva anche Anita Sonego quando, nel suo saluto di apertura, ha tradotto il titolo del forum in una domanda interessante e importante: “Com’è che la trasformazione individuale favorita dalla psicanalisi può divenire trasformazione sociale?”.
10. Mi pare che anche Massimo Amato abbia rivolto la sua attenzione al piano di queste forme socio-simboliche (ha parlato di “nodo di pratiche e dogmi” che dobbiamo smontare o decostruire). Lui, poi, era particolarmente interessato a sottolineare che in esso sono incistate anche idee metafisiche che vanno disseppellite e articolate. Questo è parte del lavoro critico. Non è il tutto del lavoro politico (che ha in sé il lavoro critico, ma lo sopravanza, perché ha anche il momento trasformativo e rischioso). Mi è parso che Marco Focchi nella sua discussione dell’intervento di Amato stesse cercando di evidenziare il momento politico oltre a quello metafisico, però non sono sicuro, perché sentivo male.
11. Ad ogni modo, chi ha perfettamente posto il problema politico è stata Carmen Leccardi. Ha fatto anzi un passo ulteriore: ha cioè cercato di indicare il potenziale su cui far leva in quell’agire che sa situarsi al livello della regolazione socio- simbolica e sa operare in esso (≠ su di esso, dall’alto). Cercare il potenziale e il punto di leva è parte della risposta alla domanda del punto 9: come si fa a fare del proprio agire un agire politico? Intanto cercando un potenziale su cui far leva, qualcosa che è già dell’ordine delle forme dell’agire (= che ha già una qualche terzità), ma che fa rotta in una direzioni diversa da quella verso cui fanno rotta le forme dominanti.
12. Leccardi non ha individuto tale potenziale ne le donne, né tantomeno ne La donna. A mio parere, non è dunque una buona risposta quella offerta da P.-G. Guéguen, che ha ricordato la mossa anti-essenzialista di Lacan dell’una per una.
Leccardi ha fatto riferimento a invenzioni femminili in quanto lette come aventi un qualche rapporto di fedeltà con l’evento del movimento delle donne. Leggere quelle invenzioni in questo modo significa non ricondurle alla presunta essenza de La donna, ma neppure semplicemente a quella posizione femminile di non tutta: significa leggerle valorizzando la loro terzità, storicamente tessuta, significa leggerle come un’altra corrente che attraversa lo spazio delle «istituzioni che regolano», cioè lo spazio delle forme d’ordine, e che dunque può consentire una contesa su quel piano (c’è infatti un punto di leva su cui far forza e uno spazio di arretramento in cui prendere lo slancio). Sarebbe interessante vedere come quelle “invenzioni che hanno ricevuto terzità” (cioè, più semplicemente: quelle pratiche) si leghino alla posizione di non tutta, ma comunque sia, non si possono ridurre allo stato di “invenzioni scaturienti da una non-tutta”: così facendo, come è stato fatto nelle repliche, si perde di vista che tipo di realtà hanno (la loro terzità) e così il loro potenziale politico. In una battuta: avrebbe scarso interesse dire che di fronte alla crisi dobbiamo volgerci alla capacità di cura delle donne (questo è un discorso che fa il capitalismo). Si tratta al massimo di dire: facciamo leva sulla capacità di cura che grazie al femminismo è sempre più una forma d’ordine riconosciuta socialmente e adottata anche da uomini.
14. È chiaro che con “femminismo” qui non mi riferisco alle rivendicazioni paritariste che ha così ben criticato Giuliana Kanzà, ma che sono una manifestazione assolutamente secondaria del femminismo italiano (sebbene quella più pubblicizzata da mass media poco attenti). Un esempio lo si può invece trovare in ciò che sta facendo il “Gruppo del lavoro” della Libreria delle donne di Milano, con un lavoro che accade con una temporalità simile a quella dell’analisi e non attraverso la produzione di belle pensate astratte (cfr. “Il doppio sì. Lavoro e maternità”, Quaderno di Via Dogana).
15. Un’ultima osservazione sull’ultima osservazione fatta da Guéguen al mattino. Ha detto: il caso esposto da Nicola Purgato è il caso di uno che arriva singolarmente a trovare il punto di responsabilità. Si potrebbe voler aggiungere: “senza bisogno della mediazione sociale”. Ebbene, intanto, quel ritrovamento del punto di responsabilità è avvenuto anche grazie a quella pratica (avente terzità, come prova l’esistenza della SLP) che è la pratica clinica. Ma non è finita: qui abbiamo una trasformazione individuale che accade grazie ad una pratica molto particolare come la clinica analitica (una pratica ordinata, ma sempre anche ordinantesi di nuovo ecc.); resta la domanda di Anita Sonego: è possibile un’incidenza, non direttamente di quella pratica, ma del sapere in essa accumulato, sul piano della regolazione socio-simbolica? Oppure dovremo aspettare che tutti vadano in analisi, come Freud giustamente diceva che non poteva essere?

Riccardo Fanciullacci (Università Ca’ Foscari di Venezia)

domenica 9 ottobre 2011

Per una clinica non soppressiva del sintomo




Dibattito svoltosi il 27 maggio 2011 alla Casa dela Cultura in occasione della presentazione del libro di Marco Focchi "Il trucco per guarire"








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Per una clinica non soppressiva del sintomo

domenica 25 settembre 2011

Il trentennale di Lacan


Lacan inizia il suo insegnamento negli anni Cinquanta e lo prosegue ininterrottamente fino alla sua morte, il 9 settembre 1981. Quest’anno ricorre il trentennale della sua scomparsa: a che punto siamo con il suo lascito intellettuale? Trent’anni sembrerebbero un tempo ragionevole per fare il bilancio dell’opera di un pensatore, ma quanto più procediamo nell’esplorazione della miniera di temi che Lacan ha aperto, soprattutto negli ultimi anni, tanto più ci rendiamo conto di quanto lunghi saranno i lavori per venire a capo di quello che oggi si presenta non semplicemente come un rinnovamento, ma come una radicale rifondazione della psicoanalisi.

Conosciuto in vita come estroso intellettuale che innesta nella psicoanalisi lo strutturalismo, che definisce l’inconscio a partire dal linguaggio e che si avventura in barocchi labirinti concettuali e formali, Lacan era considerato il rappresentante di una corrente minoritaria, particolarmente acculturata e complessa, della psicoanalisi, di cui sembrava difficile per un clinico occuparsi e che era considerata regno di specialisti e appassionati.

Oggi vediamo che sempre più, anche nelle riviste ufficiali anglofone, il nome di Lacan ricorre come un riferimento inevitabile, con cui è necessario fare i conti, i cui concetti fanno parte non di una piccola corrente ma di un patrimonio comune. Quel che fino a pochi anni fa veniva valutato come un fenomeno culturale, di innegabile importanza, ma di cui non venivano prese in considerazione le ricadute cliniche, comincia oggi a essere visto in tutta la sua importanza anche sul piano clinico.

Nelle commemorazioni pubbliche che si sono potute leggere l’accento cadeva sovente sulla figura: gli abiti estrosi, la sua impazienza, il suo dandysmo, i suoi sigari...

Bisogna distanziarsi da questo folklore per penetrare nella densità di un’opera complessa, certo, ma di cui ora si cominciano ad avere a disposizione gli elementi per renderla non solo leggibile, ma fruibile.

Lacan non parlava di teoria psicoanalitica, parlava della psicoanalisi come di una pratica, che richiede un’azione, o un atto, complessi, in un contesto in cui occorre sapersi orientare.

Quando si guardano i cambiamenti più azzardati da lui introdotti, l’esercizio delle sedute a tempo variabile per esempio, Lacan colpisce per la sua audacia, per la sua mancanza di inibizioni istituzionali. Ma non è la sua arditezza l’aspetto davvero interessante, e non cogliamo nulla della sua pratica se non sappiamo vedere i problemi a cui le sue innovazioni rispondono. In questo caso, con le sedute variabili, si trattava di sgelare una standardizzazione che avrebbe finito per spegnere ogni dinamismo nell’esperienza analitica. Ci sono però un gran numero di altri temi che man mano affiorano ora che i suoi seminari escono in versioni definitiva, e che ci spingono a reinterrogare le basi la nostra disciplina, di cui scopriamo la spinta propulsiva e il valore sociale.

È tempo infatti che gli psicoanalisti escano dal chiuso dei loro studi, che si rendano conto dell’ampiezza e della potenza dell’azione che la psicoanalisi può esercitare nel mondo attuale, e della necessità di quest’azione.

In un momento in cui lo scientismo, l’impero del calcolabile, il liberismo spinto mettono il mondo nel vicolo cieco di una crisi mal gestita dalle politiche vigenti, la nostra Scuola lancia un Forum per sondare le angosce economiche, politiche e spirituali della civiltà attuale. Occorre parlare ormai non solo nei nostri seminari e nei nostri corsi, ma da una tribuna che sia per tutti, perché quel che facciamo va nel senso dell’interesse generale, e in Lacan ci sono tutti gli strumenti concettuali necessari per leggere e affrontare un disagio che sempre più prende la china dell’insopportabile. È il programma che possiamo prefiggerci da ora per gli anni a venire.

Marco Focchi

martedì 13 settembre 2011

Libertà per Rafah Nached, psicoanalista arrestata in Siria


Non è più il tempo in cui gli psicoanalisti possano stare chiusi nei loro studi. La psicoanalisi è sempre stata una forza innervata nel sociale. Negli scritti di Freud, da “La morale sessuale civile” al “Disagio della civiltà”, questo aspetto è di continuo in primo piano. In Lacan sappiamo come l’Altro del discorso inconscio non sia il mero ricettacolo di storie private, ma un terreno su cui si giocano sapere, potere, godimento, contrasti, giustizia e ingiustizia, rivendicazioni sospese, rimozioni ma anche repressioni, insieme alle controspinte verso la libertà. È giunto il momento in cui è necessario che la psicoanalisi mostri pubblicamente le forze che la abitano e che ne traversano l’esperienza. Questo si impone ora con una energia e con un’urgenza fino ad oggi sconosciute.
Le forze della reazione si esprimono in Occidente con figure oppressive che spengono il desiderio, come lo scientismo, il liberismo estremizzato, la burocrazia soverchiante in grado di estinguere ogni fantasia cercando di contrastare l’azione che porta fuori del cerchio di un capitalismo di cui si vuol far credere non esistano alternative.
Nel mondo arabo, percorso da una primavera che riaccende la storia, le forze della reazione hanno un volto più brutale, hanno il volto del massacro, dell’assassinio politico, della guerra, della barbarie senza infingimenti. Tutto ciò che ha un valore nel riaprire la mente alla libertà di pensiero presenta un rischio per un potere tenuto insieme da una tradizione oscurantista. Tutto ciò che ha in sé la possibilità lenire la sofferenza psicologica e di rimettere in circolazione il desiderio mette a repentaglio un’autorità che si regge sulle inferriate e che si difende con i carri armati.
Rafah Nached è stata la fondatrice della Scuola di psicoanalisi di Damasco, e ha tentato di far conoscere la psicoanalisi in Siria, mettendo tutto il proprio impegno, anzi, facendosi un dovere di aprire una strada all’inconscio in un luogo che considerava ostile alla psicoanalisi. Rafah è autrice di diversi articoli, alcuni di carattere storico, sugli sviluppi della psicoanalisi in Siria, altri di carattere teorico e clinico, nei quali riconosce il posto del linguaggio e della parola.
Rafah è stata la prima donna a esercitare la psicoanalisi in Siria, e ha sempre espresso il proprio impegno scientifico, clinico e umanitario, intrattenendo rapporti e organizzando e animando convegni con le comunità universitarie.
Rafah è una testa pensante della psicoanalisi, e questo è sufficiente a far saltare i nervi scoperti delle dittature. Sappiamo che non occorre essersi macchiati di nessuna colpa né di nessuna azione specificamente politica per scatenare la reazione feroce delle regimi assoluti. La colpa è pensare, la colpa è desiderare, è non chiudersi in casa nel proprio guscio privato.
Quando una psicoanalista viene colpita senza nessuna ragione se non la libertà che ha saputo mostrare e la forza d’iniziativa di pensiero che è stata in grado di esprimere, suona un campanello d’allarme per tutti, e nel momento in cui, come comunità psicoanalitica, siamo chiamati a mobilitarci per questo, abbiamo al tempo stesso la dimostrazione della vitalità che la psicoanalisi porta dovunque attecchisca, e della necessità della sua esistenza come antidoto all’immobilismo e all’arretratezza.

Marco Focchi

domenica 4 settembre 2011

Da cosa guarisce la psicoanalisi?

Conferenza tenuta presso l'Università di Bologna il 30 novembre 2010





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Da cosa guarisce la psicoanalisi?

mercoledì 1 giugno 2011

Il posto della psicoanalisi nel mondo contemporaneo


Alma Mahler


Discorso tenuto il 2 marzo 2011 a Milano nel ciclo di preparazione al Convegno di Catania sul tema Modernità della psicoanalisi.

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giovedì 5 maggio 2011

venerdì 25 marzo 2011

Il godimento illimitato e la contemporaneità



Dafne




Marisa Fiumanò
L'inconscio è il sociale. Desiderio e godimento nella contemporaneità
Bruno Mondadori, Milano 2010.



Il godimento, nell’ultimo insegnamento di Lacan, diventa un concetto centrale, che resiste ad essere riassorbito nel linguaggio, e a partire dal quale la prospettiva clinica elaborata negli anni Cinquanta si rovescia completamente. Nel seminario sull’Etica la domanda era: “Come può il soggetto, che è soggetto del significante, attingere a un godimento senza intersezioni con il significante?”, e la risposta, sulla scia di Bataille, veniva dalla promozione dell’idea di trasgressione. A partire dagli anni Settanta Lacan rovescia l’ordine di priorità: innanzi tutto c’è il godimento, e il quesito è: “Cosa fa sì che il soggetto esca dalla propria chiusura autoerotica, da un godimento qu’il ne faut pas, per rivolgersi all’Altro?”
L’autrice prende la fondamentale nozione di godimento, a partire dalla quale Lacan riorienta completamente la prospettiva clinica della psicoanalisi, per analizzare le nuove patologie contemporanee e i fenomeni sociali. La differenza che individua tra il tempo di Freud e il nostro è che se quella di Freud era un’epoca disciplinare, fondata sulla rimozione, nella nostra il timone sociale è puntato nella direzione di un godimento da ottenere a ogni costo, fino al punto in cui questo costo può risultare insostenibile per l’economia psichica.
La prospettiva è quella di un godimento senza limite, che si configura come una forma di dipendenza, una “tossicomania” delle emozioni forti che ci portano a cercare effetti sempre più spinti, come si vede per esempio nel cinema, ma anche in tutte le manifestazioni sociali, che prendono un’accelerazione difficilmente immaginabile. Per farsene un’idea si può pensare che gli annunciatori RAI degli anni Cinquanta parlavano a un ritmo decisamente più lento degli attuali, e agganciare l’attenzione nel flusso di sollecitazioni da cui siamo raggiunti richiede un tempismo a volte atletico. Sembra ridotta la tolleranza degli intervalli vuoti, la sopportabilità dei momenti di noia. L’autrice ne deduce una società che non condanna la dipendenza perché non è più in grado di privare e di vietare, di sottrarre godimento senza perdere consenso.
Dovremmo tuttavia domandarci se questa incapacità di imporre la privazione va insieme a un’accettazione della dipendenza o se piuttosto, accentuando l’individualismo che ha caratterizzato le società occidentali a partire dall’Illuminismo, non promuova una crescente chiusura in sé. In fondo uno dei timori maggiori che i pazienti esprimono nei confronti dell’esperienza psicoanalitica è spesso quello della dipendenza in una società che, per molti versi, esalta l’autonomia, quell’autonomia che Lacan avrebbe definito del “falso cogito”, quella del soggetto arroccato alla propria sicurezza d’essere.
Uno dei fattori maggiori nel gioco politico attuale sono infatti proprio i temi securitari, fatti apposta per insinuare lo stato d’eccezione nella routine della governamentalità. In fondo la tossicomania da godimento è un modo di rendersi indipendenti dall’Altro, o di difendersi dal suo desiderio, come mi mostravano con chiarezza una volta gli ospiti di una comunità per cocainomani, che disegnavano il proprio luogo, la propria casa, fornita di tutti gli accessori elettronici per “farsi” di musica e di immagini, senza nessuna strada che raggiungesse la casa, o dove la casa era dispersa in un labirinto che la rendeva inaccessibile.
Quel che in genere chiamiamo “dipendenza” si configura spesso come il riflesso dell’ideologizzazione dell’autonomia, che porta il soggetto a chiudersi nel proprio rifugio, con i propri oggetti di godimento, evitando il passaggio che porta all’interazione con l’Altro.
La chiave di lettura attraverso il godimento porta l’autrice a interrogare molti temi che hanno animato il dibattito sociale negli ultimi tempi. Riferisco un esempio per tutti, che mi sembra suggestivo.
Lacan, seguendo il capriccio di una sua riflessione, s’interroga se il godimento non sia ipotizzabile in tutto il mondo animale. Naturalmente non possiamo averne la prova, ma possiamo pensare che in fondo il godimento sia una proprietà comune del vivente, e che potrebbe non essere improprio attribuirlo anche alla pianta. E qui l’autrice fa sorgere l’immagine mitica di Dafne che per sfuggire alla prepotente seduzione di Apollo prega di essere trasformata in alloro e viene esaudita. Abbiamo quindi una donna mutata in una pianta sempreverde, che non muore mai, nutrita dalla linfa perenne di un godimento che traversa le specie. Ed è a questo punto che, in modo spiazzante, appare l’attualità nella figura di Eluana Englaro, la ragazza che viveva solo di vita vegetativa, la ragazza pianta, che vista nella luce di Dafne ci disorienta, perché sospende tutti i nostri interrogativi etici a un godimento di cui non sappiamo nulla.
Mille altri esempi porta l’autrice di come si possano suggestivamente applicare questi concetti ad argomenti che ci sono resi familiari dal martellamento dei media, e che appaiono in una prospettiva nuova e strana in questa rilettura.
Il libro è sostenuto dall’idea che non c’è differenza sostanziale tra i temi soggettivi e quelli sociali, e che la psicoanalisi non consiste affatto nel chiudersi nel luogo claustrale di una stanza dove analista e paziente s’immergono nell’intimo dell’intimo, perché l’inconscio si innerva direttamente sul sociale, su ciò di cui tutti discutono, anche se la chiave di lettura psicoanalitica ce ne mostra un risvolto radicalmente diverso.
Un’osservazione possiamo fare sul titolo: la continuità tra soggetto e società è leggibile in Lacan in molti modi, e in fondo la definizione stessa dell’inconscio come discorso dell’Altro mostra che il lavoro introspettivo dell’analisi fa apparire un’esteriorità da cui siamo traversati in tutti i modi. Questa linea di pensiero prolunga l’edipo freudiano nel sociale, facendo del sociale una specie di grande famiglia allargata. È il versante dove Lacan rivisita Freud formalizzandone i concetti, e sostanzialmente estendendoli.
Una prospettiva più radicale potremmo trovarla in un’altra definizione dell’inconscio che Lacan dà nella lezione del 10 maggio 1967 del seminario su La logica del fantasma, quando dice che “l’inconscio è la politica”. Cosa significa? Lacan esplora la natura linguistica dell’inconscio sempre più attraverso gli strumenti della logica, e che l’inconscio sia la politica afferma che ciò che unisce o divide gli uomini, risente del fendente la logica cala nel linguaggio. In questa definizione l’inconscio non è più lo spazio familiare che si allarga alla società, ma è lo spazio aperto del confronto tra gli uomini, dove essi si esprimono con l’azione e con le parole, dove si espongono al rischio e alla gloria, alla disfatta o al gesto memorabile, misurandosi con qualcosa che la politica contemporanea fatica sempre più a vedere, perché ha nome “bellezza” e “grandezza”.

Marco Focchi

martedì 22 marzo 2011

Le Scuole di psicoanalisi, la scienza e la politica



Gabriella Ripa di Meana
Dialogo immaginario con Lacan
Nottetempo, Roma 2010




Un dialogo tra due personaggi, Lacan e un analista che rappresenta il punto di vista dell’autrice, mette a confronto una visione storica della psicoanalisi con i problemi che la psicoanalisi incontra oggi, in un’attualità in cui si sente stretta.
Le parole di Lacan, pur costruite in un montaggio, sono riprese in modo letterale da diversi testi. Le parole dell’analista suo interlocutore esprimono le preoccupazioni per una pratica che nella morsa delle ideologie contemporanee trova con difficoltà il proprio spazio.
Vorremmo credere infatti di vivere in un epoca postidelogica, ma l’autrice mette bene in risalto il peso dominante dello scientismo nel nostro mondo. Lo scientismo è l’ideologia dell’epoca in cui lo spazio pubblico non è più quello della politica ma quello burocratico delle amministrazioni, è l’ideologia che innalza il sapere e il metodo scientifico a fonti uniche di certezza e a metro di misura che obbliga alla conformità.
Scienza e scientismo naturalmente sono cose diverse, e se la prima è un metodo di analisi, di conoscenza e di intervento sulla realtà i cui risultati, nelle applicazioni della tecnologia, sono tangibili e incontestabili quando riferiti al mondo oggettivo, la seconda estende questo metodo in modo improprio, cercando di dominare con il calcolo anche i campi abitati della soggettività, soggiogando all’imperio del numero i fattori elusivi, imprevedibili, legati all’improvvisazione in cui il soggetto si manifesta. L’esempio maggiore sono le ricerche statistiche, con il loro schiacciamento uniformante, la cancellazione delle verità specifiche, e l’appiattimento conformista del comportamento.
Il libro si apre con il tema della crisi della psicoanalisi, che appartiene già a ieri, distinguendola dal momento attuale, in cui la psicoanalisi è considerata sotto attacco. Si tratta di un distinguo significativo. La crisi, di cui si parlava negli anni ’80, era infatti un problema di paradigma concettuale, di efficacia clinica, e rifletteva le difficoltà di un certo orientamento all’interno della galassia psicoanalitica che cercava di adeguare i propri concetti e i propri metodi a quelli della scienza, incontrando necessariamente dei punti d’arresto proprio sul piano della clinica. Ridurre l’interpretazione a una competenza, lo psicoanalista a uno specialista depositario di un sapere costituito, proiettato sul calcolo dell’interpretazione, spezzava la punta dell’imprevedibile, solo preservando il quale risulta possibile il trattamento di un soggetto che non sta alle leggi del numero. La crisi della psicoanalisi era quindi crisi di una corrente all’interno del variegato mondo psicoanalitico, ed era un problema clinico ed epistemologico.
L’attacco alla psicoanalisi è invece un problema politico, e direi che abbiamo oggi capito quanto la clinica psicoanalitica sia innervata nella politica, e ad essa debba rispondere più che alle domande mal formulate degli epistemologi positivisti, come Grünbaum.
Il problema attuale della psicoanalisi è politico perché la psicoanalisi tutela uno spazio che il regime puramente amministrativo dell’impolitica tende a far scomparire.
L’economia della felicità promossa attualmente dallo psicoeconomista Richard Layard in Gran Bretagna ne è solo l’esempio più evidente. Si tenta di arruolare un esercito di psicologi cognitivisti per garantire una lotta alla depressione su scala nazionale uniformando gli obiettivi da raggiungere ai criteri di una felicità benthamiana aggiornata da una misurabilità garantita da Kahneman.
Nella misura in cui le istituzioni governative si occupano di un benessere identificato con la felicità, l’inconscio diventa un problema politico che balza in prima linea.
Il “Dialogo immaginario con Lacan” è traversato da questi temi, che toccano da vicino ormai chiunque si occupi di cose “psi”, ed esprime una potente spinta antistituzionale, aprendo la sua critica a tutto campo, portandola però anche su un aspetto che andrebbe invece preservato, come le Scuole di psicoanalisi, considerate dall’autrice negative per il desiderio e incentrate sull’autorità.
Il problema è che l’autorità non è l’autoritarismo, e che le professioni impossibili elencate da Freud, insegnare, governare, psicoanalizzare, sono impossibili proprio perché non si fondano su un’operatività tecnica, e trovano la propria risorsa in una auctoritas, che è solo sinonimo di dignitas. Non c’è insegnamento senza il consenso di chi vuole imparare, malgrado le pretese tecniche d’apprendimento messe a punto nei laboratori di mimesi scientifica della psicologia, e chi vuole imparare dà il proprio consenso se rispetta chi insegna. Si capisce perché, in un sistema scolastico come l’attuale, fatto per umiliare gli insegnanti, l’istruzione sia a repentaglio. Che non ci sia una téchne politiké lo spiegava già Socrate, e la crisi della politica non viene da una perdita di potere, da una parcellizzazione taylorista e fordista dell’organizzazione politica, ma da un depotenziamento di quelle che Bagheot chiamava le dignified parts of the Constitution. La psicoanalisi ha il proprio motore non nella competenza, nell’abilità tecnica, nella perizia dello psicoanalista, ma in quel perno della traslazione che è il soggetto supposto sapere. Non cioè in un sapere da applicare ma in una funzione che, senza necessariamente coincidere con la persona dell’analista, ne autorizza la parola, dandogli un valore diverso da quello che ha nel dialogo quotidiano. Le Scuole di psicoanalisi non sono che l’organizzazione istituzionale, cioè proiettata nella durata, di questa funzione imprescindibile nella pratica psicoanalitica, e criticarla significa carezzare l’illusione di uno psicoanalista eroe solitario, sottratto allo spazio pubblico, chiuso nella eburnea turris di una solitudine immaginata come una vetta irraggiungibile, che è in realtà una resa senza condizioni all’ingranaggio che non importa ti dia l’illusione di non omologare te, se vince omologando tutti.

Marco Focchi

venerdì 4 febbraio 2011

Ulteriori osservazioni sull'autorità proposte da Riccardo Fanciullacci

Caro dottor Focchi,
la ringrazio per queste risposte così chiare alle mie domande, che sono solo alcune delle tante che il suo blog così interessante mi suscita ogni volta.
Oltre che per ringraziare, vorrei usare questo commento per ricambiare con due piccole osservazioni.

La prima riguarda alcuni stilemi che ricorrono sia negli ultimi scritti/trascrizioni di Lacan, sia soprattutto negli scritti recenti dei membri della vostra Scuola. Faccio tre esempi ricavandoli dalle sue risposte: “una via d’accesso a un po’ di godimento”, “non sempre questa funzione cade in buone mani”, “casi favorevoli”. Altre forme che ricavo da altri testi: “soluzione non anonima”, “più degno di rispetto” (formula che Lacan usa per descrivere sia l’amore di un uomo per una donna particolarizzata, sia l’assunzione della paternità dopo il tramonto del ruolo forte del padre).
Io amo molto questi stilemi. Qualcuno potrebbe rubricarli come formule vaghe, ma io preferisco associarle ad una poetica del dettaglio infinitesimo, così piccolo che non c’è una nuova categoria per afferrarlo, ma occorre aggiungere queste formule. Esse sono come degli operatori che servono a far de-consistere le categorie su cui operano. Miller, qualche anno fa, ha tenuto a Parigi un corso sull’esprit de finesse (io non ero a Parigi, ma mi hanno raccontato): ecco siamo da quelle parti. Siamo dalle parti di un sapere, quello analitico, che sempre più nettamente vuol significare di avere a che fare e di voler avere a che fare con ciò che Aristotele dice che sfugge al sapere, cioè il singolare. A chi dice: “sono formule vaghe” vorrei dire: “no, sono formule che ti segnalano di non fare della teoria un qualcosa di autoreferenziale, perfettamente coerente e integrato perché formale e vuoto”. Non so se questa mia lettura è per lei accettabile.
Vorrei aggiungere che stilemi come questi si trovano talvolta anche presso altri pensatori: penso ad esempio alla locuzione di Winnicott sulla madre minimamente decente. Quando sono gli altri ad usarle si ha sempre il timore che per quelle aperture non ben circoscritte possa poi passare di tutto (ad esempio: una morale normativa, la fissazione di modelli comportamentali stretti), ma questo pericolo non va combattuto attaccando in generale le formule vaghe.

La seconda riguarda le annotazioni finali sull’autorità.
È una questione davvero decisiva oggi. Bisogna ripensarla proprio anche per contrastare i tentativi di rimettere in piedi vecchie autorità, bisogna ripensarla affinché la critica di questi tentativi non riproduca l’ingenuità di quelle critiche che oppongono in maniera unilaterale libertà e autorità.
Lacan, se non sbaglio, lo faceva notare agli studenti del Maggio. Ma su questo punto un lavoro di straordinario interesse e ricchezza lo ha fatto il pensiero della differenza sessuale, in particolare quello italiano. Mi permetto così di segnalare, tra gli altri, tre testi: uno è il quarto volume prodotto dalla comunità filosofica femminile di Diotima (Verona): “Oltre l’uguaglianza. Le radici femminile dell’autorità”; un altro è il libro di Lia Cigarini “La politica del desiderio”, che ha una sezione sull’autorità e infine alcuni testi di Luisa Muraro. Ne citerò uno di cui ho appena curato una nuova edizione ampliata (la prima era introvabile già quando è uscita): “Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti” (Orthotes, Napoli). Poiché l’ho curato, l’indicazione è interessata? Sì, ma anche no perché l’ho curato appunto in ragione dell’interesse che secondo me il libro ha.
Nella trascrizione della terza delle Tre lezioni, trovo una frase simile a quella che è nella sua ultima risposta: «Ordine simbolico e ordine sociale non sono la stessa cosa. Se, per esempio, teorizzo la necessità di autorità, non posso in alcun modo dedurne la necessità di cattedre o di voti o di altri simili dispositivi con cui, a livello di ordine sociale, si impone un’autorità. Cattedre, voti, giudizi e cose simili, come sentenze, tribunali ecc., sono forse difendibili contestualmente. Ma non è che l’aver dimostrato la necessità che vi sia autorità perché vi sia ordine simbolico equivalga all’affermazione della bontà di come di fatto, storicamente, socialmente, un’autorità si esercita. È chiaro questo? Ebbene, ordine simbolico e ordine sociale, peraltro, non sono neppure separati. Nel momento in cui teorizzo la necessità simbolica di autorità, infatti, io pongo un’istanza anche per l’ordine sociale: bisogna che ci sia autorità perché vi sia ordine sociale, innegabilmente. Ma quali forme, quali modi di questa autorità siano da costituirsi…».
Concordo con l’impostazione che emerge dalle righe di Muraro che ho citato e anche con l’aggiunta che le segue e cioè che non solo vi possono essere diversi “portatori di autorità”, ma anche diverse forme di autorità. In una battuta: se c’è stato un tempo in cui il padre e il poliziotto erano entrambi portatori di una stessa forma di autorità, oggi l’autorità che un padre o un insegnante può sperare di realizzare e cercare di realizzare è di tipo diverso, molto meno legata alla possibilità di usare, come più o meno estrema ratio, anche la forza pur di venire a capo di una situazione. È un’autorità senza potere, ma non senza potenza (nel senso spinoziano): è un’autorità che non limita, ma capacita, “offre una via”, “mostra una soluzione”.
Ecco, nel provare a dire qualcosa a proposito di quest’altra forma di autorità, che è quella a cui lei associa la dignitas, lo scambio tra la Scuola lacaniana e il pensiero della differenza è senz’altro un’occasione importante.
Ma sullo stesso tema incrociamo anche una parte della teologia cristiana, ad esempio alcuni studi sul cristianesimo primitivo che esaminano che ruolo avesse la codificazione nella costituzione dell’autorità che operava nelle prime comunità. (Per intenderci: la formalizzazione, molto recente, ottocentesca, dell’infallibilità del Papa, che ha prodotto all’immagine del Cattolicesimo più danni che altro, è legata ad una crisi dell’autorità come dignitas, crisi a cui si è tentato di far fronte con una regola procedurale!).
Nel deserto attuale della riflessione politica, queste tre linee di lavoro, quella della vostra Scuola, quella del pensiero femminile italiano della differenza e quella di una parte della teologia cattolica mi paiono all’avanguardia per pensare qualcosa che invece – e lo dico con dispiacere – è stato davvero poco pensato nella tradizione marxista e anche operaista.

Spero che potremo tornare presto su questo problema. Credo che la vostra Scuola abbia da dire in proposito, e non solo a partire dalla “autorità” possibile per un padre postmoderno, ma anche a partire dalla “autorità” dell’analista – e da quella di Lacan per voi, che ho intravisto leggendo le “Lettere all’opinione illuminata” e che mi ha molto, molto colpito: è assolutamente inusuale in uno scenario come quello postmoderno in cui non c’è riferimento ad un nome o a una teoria che non sia presentato come sostituibile.

martedì 1 febbraio 2011

Domande e risposte sul padre postmoderno

Ricevo e pubblico volentieri, insieme alle mie risposte, queste domande del filosofo Riccardo Fanciullacci. Il dibattito prende spunto dal testo, presente in questo blog, "Le nuove famiglie e il padre postmoderno".

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