lunedì 4 luglio 2011

Stress, ansia, panico

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Stress, ansia, panico

2 commenti:

  1. Il tuo testo dà spunto a diverse riflessioni.
    Una riflessione sul reale. Scrivi:“quel che veniva rivissuto non era l’evento in quanto tale ma quel che in quel momento non era accaduto”, quel che è rimasto sospeso. Trovo qui una sottolineatura di quanto c’è di imprendibile nella vita. Qualcosa di sospeso, qualcosa che non può essere rappresentato se non après-coup, a cose fatte (quando appunto l’evento non è in corso). Altrove – mi pare - indicavi il reale come tutto ciò che chiamiamo vita senza potercela rappresentare: Se sono, se mi sento, non mi posso pensare. La ripetizione connessa al trauma indica forse questo pensarsi senza essere, pensarsi laddove non sono (o non sono più)?

    Penso al caso di una giovane donna che non si perdona un’ interruzione volontaria di gravidanza avvenuta parecchi anni prima. Lavora in uno studio come segretaria e quotidianamente uscendo dall’ufficio ha un’ansia incontenibile per il pensiero di avere sbagliato qualcosa: la stesura di un documento, l’invio di una lettera, l’apposizione corretta dei nomi sui documenti stessi. Nonostante rasenti la perfezione nel suo lavoro di segretaria, quasi ogni giorno passa le sere in compagnia di queste paure. Accanto a queste, l’eventualità che accada l’irreparabile, che venga cioè licenziata dal lavoro. Anche la tecnica di controllo costante che questa donna si infligge non toglie ma amplifica la successiva paura di avere “comunque” sbagliato (ribadiscono il punto di debolezza di cui parli alla fine dell’articolo. “Qualcosa può avvenire, mio malgrado”).

    ‎Penso anche al brano che riporto di Pessoa in cui si coglie l’imprendibilità e l’inevitabilità della vita."Io non volevo sentire la vita né toccare le cose, sapendo con l'esperienza del mio temperamento al contagio del mondo che la sensazione della vita era sempre dolorosa per me. Ma evitando quel contatto mi sono isolato, e nell'isolarmi ho esacerbato la mai sensibilità già eccessiva...Ho sbagliato il metodo di fuga. Sono fuggito verso lo stesso luogo dov'ero, con la fatica del viaggio che si è aggiunta al disgusto di vivere in quel luogo" (F. Pessoa, Il libro dell'inquietudine")

    Infine penso a Dirty Corner: un luogo privo di appigli, un buio senza luce, un vuoto senza fondamenti e un bimbo che si serve del padre in cui trova quel limite che lo orienta. Per poter abitare uno spazio senza fondamenti non occorre riempirlo di oggetti ma avere la possibilità di affidarsi all’altro.

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  2. Cara Emilia, trovo oggi il tuo commento rientrando nello studio dopo la pausa estiva. Mi sembrano complementari la riflessione clinica che proponi, la donna che "ha fatto un errore" e che quindi tutto quel che fa è sbagliato, e la riflessione finale sulla possibilità di affidarsi all'Altro. Da un lato c'è la vigilanza continua rispetto all'imperdonabile, e qualsiasi cosa può diventare imperdonabile se l'Altro è pronto a coglierti in fallo. Devi essere assolutamente vigile di fronte a un Altro che ti vigila, e credo il suo senso di colpa si commisurato alla struttura dell'Altro con cui si trova ad aver a che fare.
    L'Altro invece a cui puoi affidarti è l'Altro del desiderio. Non importa se di fondo c'è sempre l'Altro che inganna: puoi entrare nel gioco del desiderio senza garanzia, anzi è necessario non ci sia.
    Pessoa si ritrae dal desiderio e, per nostra fortuna, si ritrova nel labirinto infinito di un se stesso, nient'altro che se stesso, che esplode in mille identità ed eteronomi diversi. Per nostra fortuna perché ci dà una grande letteratura e il senso di un'esperienza umana smisurata. Il prezzo per lui è la prigionia nell'infinito, come dice da qualche altra parte, ed essere prigionieri dell'infinito non è un modo di allargare l'esistenza, come ci fa ben capire.

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