martedì 27 ottobre 2009

Il buon uso dell'inconscio






















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10 commenti:

  1. "L'inconscio è questo insieme di tracce dell'Altro", scrivi sopra... e ancora "...credo che un modo più preciso per definire il risultato di un'esperienza di analisi, più che parlare di guarigione sia riferirsi a un BUON USO DELL'INCONSCIO". Queste tue parole mi hanno riportato immediatamente a un testo pubblicato prima di "Il buon uso dell'inconscio", un testo a mio parere fondamentale, "L'oggetto immemore", dove tu affronti il problema della traduzione in analisi. E' forse qui che si precisa come il lavoro analitico nulla possa avere a che fare con la guarigione del o dal sintomo ( il soggetto non guarisce dalla relazione con il linguaggio) ma con il "rileggere la propria storia e i propri miti traducendo le tracce, i segni, i documenti di un passato che, senza le chiavi offerte dall'esperienza analitica, restano una lingua morta, più ancora che dimenticata anche se non meno carica di conseguenze, perché prende parola a sua insaputa(all'insaputa del soggetto) in maniera incomprensibile". Un buon uso dell'inconscio dunque passa anche attraverso questo lavoro di traduzione. Coincide forse con essa?

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  2. Si certamente. È una traduzione e un traversamento delle proprie tracce fino a un punto di opacità di fondo. Diceva Barthes in un suo corso al College de France che il momento della verità è il sorgere dell'ininterpretabile. E il punto ultimo di ogni trattamento, in senso analitico, è far emergere il nucleo intrattabile. Allora abbiamo dei segni che non occorre ricondurre al senso, segno opachi, tracce di godimento, dove la lettera contorna un buco. La guarigione è un grande tema, ma andrebbe considerato al di fuori della una logica oggettivistica in cui ricade se il concetto di guarigione è semplicemente ricalcato dalla medicina

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  3. Questo ininterpretabile, questo punto di opacità risulta poi ciò che salvaguarda la struttura in cui il soggetto è preso. A questo proposito scrive Judith Butler " ...l'inconscio pone limiti alla ricostruzione narrativa della propria vita. Per quanto possiamo essere spinti a raccontare e dar conto di tutti i nostri vari sé, le condizioni strutturali di tale narrazione finiranno per rendere impossibile quell'atto. Il corpo singolare cui la narrazione si riferisce non può essere catturato da una narrazione totale, non solo perché quel corpo possiede una storia della propria formazione che resta inaccessibile alla narrazione, ma anche perché le relazioni primarie sono costitutive in modo tale da rendere necessariamente opaca proprio la comprensione di noi stessi" (in "Critica della violenza etica"). La vita insomma eccede ogni tentativo di dare conto di essa. O - come scrivi tu in "Manca sempre una cosa" a proposito di Pessoa " - "dal momento in cui essere e pensiero non coincidono, l'esistenza trabocca in innumerevoli possibilità che non richiedono il riconoscimento del pensiero"

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  4. Sì, esatto, il problema della narratologia è la totalizzazione del senso, la subordinazione alla storia e alla sua finalità: una storia deve avere un inizio, uno svolgimento e una conclusione, secondo il canone aristotelico. Ma il più delle volte quel che ci raccontano i pazienti non sono storie, non sono romanzi famigliari, ma spunti, annotazioni, ritagli di quotidianità, lampi di vita che non si organizzano in uno svolgimento narrativo, e che non occorre organizzare. La visione occidentale, profondamente radicata nella nostra cultura, è che la felicità sia la conclusione di uno sviluppo narrativo, la fine della storia, se la storia è a lieto fine. La sensibilità tragica non è diversa: ha solo il segno negativo e ha la stessa struttura. In realtà la felicità è qualcosa che cogli mentre ti sta sfuggendo di mano, non è mai un punto d'arrivo. Piuttosto qualcosa per cui ti volgi indietro, ed era quella, quel momento irripetibile!

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  5. A volte negli "spunti" nei "lampi di vita" che ci raccontano ritrovo quello sfaldamento dell'Uno, quella molteplicità , soluzione provvisoria forse all'impossibilità di rappresentarsi del soggetto. Con effetti di straniamento e terapeutici. A questo proposito mi piace riportare qui uno stralcio di una lettera di Pessoa alla fidanzata in cui compare uno dei suoi numerosi eteronimi
    "26 settembre 1929. Piccola Ophelinha, non so se mi vuole bene, ma le scrivo esattamente per questo motivo. Poiché mi ha detto che domani non vuole vedermi fino a quando non ci troveremo alla fermata del tram, cioè fra le cinque e un quarto e le cinque e mezzo, verrò dunque là. Tuttavia, dato che si verifica la circostanza che l'Ingegnere Alvaro de Campos domani mi deve accompagnare per gran parte della giornata, non so se sarà possibile evitare la presenza (del resto abbastanza gradevole) di questo signore durante il cammino verso certe finestre di un colore che non ricordo. Il mio vecchio amico che ho testè nominato ha poi qualcosa da dirle. Rifiuta di fornirmi qualsiasi indiscrezione sull'argomento, ma ho fiducia che in sua presenza abbia possibilità di dirmi, o dirle, o dirci, di che cosa si stratta. Fino a quel momento sarò silenzioso, attento, e perfino fiducioso. Fernando"
    Non è straordinario?

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  6. Le tue osservazioni mi riportano a un testo preparato un po' di tempo fa per una rivista francese. Non è mai stato pubblicato in italiano. Ma ne offri l'occasione. Lo divido in due post perché supera la lunghezza consentita

    PESSOA: IL FIDANZATO INCOMPIUTO
    Marco Focchi

    Let your silence tell me of the numberless dreams that are you
    (The Mad Fiddler)

    A Lisbona ero andato a cercare Pessoa. Con la mia compagna di viaggio avevamo deciso di lasciare per l’ultimo giorno la visita alla sua casa, dopo esserci acclimatati all’atmosfera metafisica della capitale sul Tago immersa nella saudade. Abbiamo così percorso i quartieri della Baixa, dove Pessoa svolgeva il suo lavoro d’impiegato, abbiamo girato i caffè che frequentava, abbiamo cenato al Martinho de Arcada, il suo ristorante preferito, situato nella Praça do Comércio, talmente pieno di sue fotografie che colpisce come un uomo senza identità elettiva abbia avuto una così ricca documentazione d’immagini di sé.
    L’ultimo giorno, quando andammo alla sua casa, la trovammo chiusa per il turno settimanale. Naturalmente avremmo dovuto informarci prima, ma l’uomo dalle molteplici identità ci sfuggiva proprio mentre cercavamo di sorprenderlo nel suo luogo. Poco male in fondo. Era un’illusione l’idea che Pessoa potesse avere un suo luogo, una cristallizzazione d’essere dove essere colto. Pessoa in realtà era dappertutto: a largo Camoes, dove campeggia il suo monumento, nelle librerie traboccanti dei suoi volumi, nel castello di San Giorgio in cima all’Alfama, dove una mostra d’arte riproduceva in mille fogge il suo ritratto di uomo tranquillo, d’impiegato grigio ma dignitoso, vestito con una cura che traspare in tutte le sue fotografie, immagini assolutamente silenziose sull’inquietudine ontologica che prende voce nei libri che non si è mai preoccupato di pubblicare. “Fernando, è un delitto che lei continui a essere sconosciuto” lo rimproverava l’amico Luis de Montalvor, portavoce del modernismo portoghese e fondatore della rivista “Orpheu”, ma lui rispondeva: “Non ha importanza, alla mia morte lascerò qualche baule pieno”. Noi posteri sappiamo come questa non fosse una vana promessa, e con quel baule stiamo ancora facendo i conti. La vita di Pessoa era una vita di carta, la sua esistenza era fatta di parole più che di carne. Quando leggiamo Dante sentiamo il sangue pulsargli nelle vene mentre sale i gironi infernali, sentiamo i ciottoli rotolargli sotto i piedi, avvertiamo la pesantezza e l’ingombro del corpo. Beatrice è all’inizio uno sguardo da un lato all’altro della chiesa, poi è un oggetto perduto che irroga la forza di traversare i regni ultraterreni, che lo porta all’ultimo canto del Paradiso, il più traboccante di sensualità.
    Per Pessoa i corpi davvero palpabili sono le parole, che fa descrivere a Bernardo Soares come sirene visibili, sensualità incarnate, affermando per contro come la sensualità reale non rivesta per lui nessun interesse, neppure mentale.
    Inevitabile che l’immagine della donna sfumi nella sua scrittura fino a diventare rarefatta, evanescente, profilo intangibile di una raffigurazione linguistica. Anche nel suo Faust, dove la donna diventa un argomento inevitabile, il desiderio trova modo di esprimersi cancellando l’esistenza dell’oggetto a cui si rivolge: “Se potessi amarti senza che tu esistessi. E possederti senza che tu ci fossi”.
    Qual è, in questo universo di inesistenza, la donna reale su cui si sono posati gli occhi del poeta in un incontro fuggevole che, senza possedere la leggerezza idealizzata di una relazione platonica, non si è mai concretata nel sesso e si è espressa in lettere d’amore la cui banalità sconcerta quando si pensa alla mano che le ha vergate?

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  7. Osserviamo la foto di Ophélia Queiroz all’età dal suo incontro con Pessoa: una ragazza di diciannove anni, bruna, dall’ovale del volto regolare, graziosa anche se non bella, guardata con l’occhio di oggi. Dai capelli lisci raccolti un ciuffo esce studiatamente a ricciolo per coprire la fronte. Dagli orecchi un po’ sporgenti pendono orecchini minuti rotondi. Gli sbuffi di un collo di pizzo guarniscono un abito che sfuma nel grigio dello sfondo.
    Questa ragazza d’aspetto un po’ dimesso si esprime in modo semplice sul grande Pessoa. Ricorda le sue frasi più banali, più quotidiane: “Signorina, vorrei avvertirla di una cosa: nella guida delle scale c’è un buco… stia attenta a non inciampare”. E’ quel che resta del primo incontro, quando lei viene assunta nella ditta dove lui lavora. Anche il corteggiamento comincia in modo impacciato e quasi infantile, quando lui le dice: “Oggi per la prima volta sono stato geloso degli occhi di mio cugino, perché io ieri non ti ho visto ed essi invece ti hanno visto”. Ophélia non vede Pessoa attraverso i libri, come noi: vede l’impiegato ingenuo che cerca di ingelosirla dicendole di avere attirato l’attenzione di una signora bionda che non esisteva (e questa inesistenza per lei non ha nessuna risonanza ontologica).
    Si resta ai preliminari del fidanzamento, quello che in portoghese Ophélia chiama “namoro”, un periodo d’intimità che precede la dichiarazione ufficiale, la presentazione in famiglia, l’affermazione pubblica d’esistenza della relazione.
    Il fidanzamento di Pessoa resta incompiuto come i suoi libri: dura pochi mesi, da marzo a novembre, prima che lui, senza una ragione concreta, si allontani man mano da lei. Non c’è un dramma del distacco come non c’è una passione dell’inizio. Pessoa entra ed esce di scena dalla vita di Ophélia quasi senza che ce ne si accorga.
    Però… però… è davvero uscito? O è il suo modo di esserci senza esserci come in tutte le cose? Dopo nove anni di silenzio Pessoa passa in rua de Ouro, dove abita Ophèlia, ne incontra la sorella e tramite lei le fa avere una foto con una dedica. E’ una foto singolare, che lo ritrae di profilo in una mescita, tra una botte di clarete e una di moscatel, elegante, con un cravattino a farfalla, mentre beve un bicchiere di vino rosso. Anche la dedica vale una menzione: “Fernando Pessoa en flagrante delitro” .
    Ricevuta la foto Ophélia gli scrive per ringraziarlo e così riprende il loro namoro. Come fosse la cosa più naturale del mondo: così lo racconta Ophélia, questa strana Penelope lusitana che attende, sine ira ac studio, il ritorno dai suoi vagabondaggi lirico-ontologici un fidanzato che non è un fidanzato, il quale vive una vita che non gli appartiene, dedicandola a un’opera che non pubblica.
    Anche questo scorcio di namoro durerà pochi mesi, da novembre a gennaio. Solo in questa ripresa di frequentazione Pessoa metterà piede per la prima volta in casa di Ophélia, ma non certo per farsi presentare come l’innamorato della ragazza: si propone come amico del nipote di lei, Carlos, e quando arriva vanno tutti e tre in salotto a discutere di arte e di letteratura.
    Ophélia osserva, e come darle torto, che per un’altra donna non sarebbe stato possibile avere un amore con Fernando, ma per lei sì perché lo capiva e le piaceva. Tutto qui: nel modo più semplice del mondo questa donna capiva e apprezzava non quello che è stato uno dei pensatori più sofisticati del secolo, ma il semplice impiegato, bislacco certo, ma in un modo che non la disturbava e che sentiva forse solo come vagamente ridicolo e divertente.

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  8. Grazie per questo testo. Mi capita ogni tanto di riprendere "Lettere alla fidanzata", come se la lettura non potesse essere conclusa. Sarà per quell'incompiuto della vita, sarà per quella vita di carta ma è una lettura che mi diverte e mi fa sorridere, come sarà capitato ad Ophélia.

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  9. L'ingegnere Alvaro de Campos - che accompagna talvolta Fernando negli incontri con Ophélia - sembra ora figura del sentirsi altro da sé medesimo ora gioco dell' "esserci senza esserci" cui accenni nel brano "Il fidanzato incompiuto". Questo Alvaro de Campos - con cui Fernando fa sorridere Ophélia - pare un "amico" come heteros autos, non un altro io ma un'alterità immanente nella mia stessità(come sottolinea Agamben). L'"amico" ritorna come Bernardo Soares nel "libro dell'inquietudine" (è proprio Pessoa che lo presenta al lettore all'inizio del libro)e pare un modo - una strategia? - per raccontarsi.
    "L'amicizia è questa desoggettivizzazione nel cuore stesso della sensazione più intima di sé", scrive Giorgio Agamben che ribadisce che l'essere stesso è diviso, non identico a sé, anzi la sensazione dell'essere è già sempre divisa e con-divisa e l'amicizia nomina questa condivisione. Credo che questa nozione di "amicizia" possa intervenire nel raccontarsi (compresi i diari e le autobiografie) e - forse - nella stessa esperienza d'analisi.

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  10. Le citazioni di Giorgio Agamben sono tratte dal suo libro "L'amico" ( ed. Nottetempo)

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